LA VENDEMMIA, SAPORI DI TEMPI ANDATI ORAMAI DIMENTICATI! (DI ANTIMO PUCA)

Conosco bene quel “Nettare” di cui tutti parliamo e siamo innamorati. Del vino conosco il sapore del novello che lascia l’aspro in bocca e l’odore nel naso. Conosco l’amore e la fatica che serve per farlo, il rumore dell’acqua che bolle nei colmatori sopra i tini, l’odore di sugna e cera lacca per sigillare gli sportelli delle botti. Ma soprattutto conosco i “filari di nonno” e le punture d’ape!

(Antimo Puca)

Nei poderi come quello in cui sono cresciuto, la vendemmia, la trebbia e la macellazione del maiale vanno a far parte delle feste massicce come la festa del Santo o la fiera. L’immagine che ho della vendemmia è quella della strettoia a mano delle botti di legno, delle cene tutti insieme, della colazione nella vigna a “caponata” e vino di mattina presto. Ma quella più cara, indelebile e più dolce di tutte, è l’immagine di mio nonno alle due di notte, seduto in tinaio tra il borbottio dell’acqua, attento e scrupoloso nell’ascoltare il respiro di quei giganti di sasso, quasi come se vegliasse il sonno di un bimbo (passava meno tempo nella stalla, quando stava per partorire una mucca.. il vino per nonno è sacro!). Sono cresciuto tra i filari del nonno dove tra una puntura di ape nel periodo della vendemmia e un acquazzone improvviso a primavera ho scoperto fin da piccolo la passione per il vino. Una volta la vendemmia era sempre nell’aria. Semplicemente, l’uva era nella vita degli ischitani e viceversa. Interi cicli stagionali dell’uva scandivano la vita in quel che fu il nutrito arcipelago dei piccoli produttori vitivinicoli. Già nel rigido inverno donne e uomini andavano nei vigneti a calare in terra, dai filari, tranci di vite eccedenti. Poi, gli stessi tornavano a legare le viti selezionate con un particolare giunco filiforme, per i latini juncus; a ridosso di fil di ferro avviluppati tra i paletti di castagno; che posti in fila allineavano i filari. Lavori stagionali che coinvolgevano, direttamente o di riflesso, l’intera popolazione. Questi lavori venivano fatti da squadre formate spesso da parenti ed amici coi quali si accordava un patto tipico “finita la mia vigna cominciamo la tua”. Ricordo i contadini che si confrontavano con mio nonno. Tra questi, gli antichi fratelli D’Ambra, con baffi e capelli bianchi. Le colline attigue pettinate dai vigneti si riempivano di lavoranti. Non che mancasse il lavoro bracciantile ma serviva medie e grandi proprietà. Un ciclo, quello dell’uva, che solo terminava “a vvennemmià”. Ed anche questa si avvertiva anzitempo. Già tra luglio e agosto le interminabili piccole cantine disseminate ovunque, spalancavano i portali per svuotarsi. Così vicoli e piazzette per settimane intere si riempivano di torchi e pompe, botti, barili, caratelli e bigonce. Tutto veniva lavato e risciacquato, riparato e predisposto per la raccolta dell’uva. Prestazioni del ciclo dell’uva che ‘ieri’ animavano ogni angolo e che ‘oggi’ i giovani possono solo aver visto in foto o appreso per sentito dire. Ebbene, la vendemmia era una sorta di mobilitazione paesana generale, culminante nella prima settimana di ottobre, celebrazione virtuosa dell’atto specifico della trasformazione delle uve in mosto che ogni viandante poteva avvertire nell’aria dei rioni svolazzati da nugoli di moscerini, anche questi ebri. Finiti i clamori della vendemmia, il ciclo riprendeva, di filtraggio in filtraggio. Dopo, il vino riposava e consentiva a tramontane e libecci quel lento penetrare nelle mura, tra pori e fori del peperino prima, al legno delle cantine dopo, fin dentro le botti per insufflarne il contenuto e perfezionarlo nella bevanda sacra ai Greci e servita dai Latini nei loro baccanali. Vorrei sensibilizzare l’opinione pubblica e gli amministratori affinchè si prenda atto che bisogna tornare a fare politica di territorio e salvaguardare le piccole aziende agricole, vero e proprio motore dell’ambiente e patrimonio dell’economia locale e nazionale. Bisogna cominciare un percorso che dia dignità alle antiche produzioni locali, recuperando l’immagine dei vini, dei fagioli zampognari che furono introdotti alla fine del 1400 dagli Aragonesi e di tanti prodotti autoctoni quasi dimenticati, riportandoli, con impegno, allo stesso livello dei prodotti nazionali. L’incuria dell’uomo e la sua incapacità di mantenere, gestire e recuperare i terreni, unendosi alle nostre Istituzioni che non fanno più politica di territorio, fanno assistere giornalmente ad un degrado sistemico dell’ambiente che ci circonda. Bisogna recuperare le terre incolte, prendersi cura della fertilità dei suoli, delle vigne, promuovere il territorio e fare sistema per rivalutare ed esaltare le eccellenze autoctone. Bisognerebbe riformare e creare una politica agricola Comunale che coinvolga in cooperazione tutti i Comuni isolani. Gli eventuali ettari di vigneti dismessi e non produttivi, dovrebbero essere rimessi a bando nei nostri Comuni, riformare totalmente l’assegnazione delle nuove superfici, snellire/semplificare le procedure per l’accesso e la pulizia dei terreni confinanti incolti o abbandonati, sia per la tutela delle produzioni sia per un più forte presidio del territorio. Bisognerebbe pensare a finanziamenti orientati a sostenere le aziende su quelle che saranno le sfide future (nuove attrezzature a minor impatto, sistemi di irrigazione con contributi idonei ai consorzi irrigui, difesa dei terreni, pratiche snelle per la realizzazione di pozzi, incentivi per studi di ricerca su vitigni resistenti alla siccità… ecc.). Il mondo agricolo e vitivinicolo sono un fiore all’occhiello per i nostri Comuni. I contadini, storici contribuenti alla economia locale, restano gli ultimi e veri custodi del territorio e degli ecosistemi. Farli crescere dovrebbe essere la missione. Per fare ciò occorre tornare ad una forte coesione tra tutte le parti coinvolte, ognuno nel rispetto del proprio ruolo.

Di Antimo Puca

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