Per te che sei nato a Procida, figlio di Procidani e nipote di Procidani, profondamente radicato nel territorio, nella sua cultura e nelle sue tradizioni, la Congrega dei Turchini è più di un luogo di culto e di aggregazione: è una sorta di “genius loci”, uno dei “topoi” imprescindibili della vita isolana. E la tua mente corre inesorabilmente a quando da fanciullo tuo nonno ti conduceva con sé ( tuo padre non c’era: navigava per mesi ed anni) nella Congrega per cantare l’ “Ufficio”la domenica o il “Miserere” il mercoledì Santo. E tu trascorrevi lunghe ore ad annoiarti ed a lottare con il sonno mentre il canto rude in un latino storpiato dei confratelli ti faceva quasi da ninna nanna. E poi, dopo la fine della funzione, tutti andavano in sagrestia a bere un bicchiere di vino “ per schiarire la voce”, dicevano. E a te toccava qualche carezza della mano callosa del Priore e qualche biscotto. Adesso sei qua, in via Marcello Scotti, di fronte alla chiesa di S. Tommaso D’Aquino, sede della Congrega dei Turchini. Una voce di dentro ti dice di entrare. Non sei più il bambino di tanti anni fa, anzi! Oggi sei un adulto maturo, forse francamente vecchio, e nella tua vita hai salito migliaia di volte questi pochi scalini che immettono in chiesa. Attraversi il porticato neoclassico sostenuto da imponenti colonne doriche ed entri. E’ l’imbrunire di una ventosa giornata autunnale ed all’interno non c’è nessuno. Le cose, quadri, statue, banchi, perfino la statua del Cristo Morto, appaiono in penombra e quasi sfumate. Solo il punto centrale dell’altare, la custodia del Santissimo, lì in fondo, brilla di una luce intensa e sembra faccia da catalizzatore per tutte le cose attorno. Dalla porta semiaperta della sagrestia ti arrivano smorzate le voci dei confratelli che discutono fra loro. Tutto come sempre. E ti siedi in un banco quasi ad assaporare una pace ritrovata. Ti guardi intorno. E’ una bella chiesa, costruita poco più di un centinaio di anni fa, l’ultima in ordine di tempo delle chiese procidane. Tanto è vero che ancora oggi a Procida nel linguaggio popolare viene indicata come “la chiesa nuova”. Alle pareti ottimi quadri di fattura secentesca tra cui spicca una Madonna incinta del Salvatore (caso rarissimo nell’iconografia mariana) trasportata da un nugolo di angeli. In un lato, su un basamento di marmo, la splendida scultura lignea del Cristo morto cui la penombra conferisce un fascino maggiore. In alto, sulla parete di fondo, al di sopra dell’altare maggiore, la corpulenta figura di S. Tommaso D’aquino, l’Aristotele cristiano, emerge da un quadro quasi a sorvegliare che tutto si svolga secondo le regole. La tua mente vaga e va indietro nel tempo: circa un secolo fa Angelo Antonio Scotti, un monsignore procidano dal titolo onorifico di Arcivescovo di Tessalonica, e la sorella Mariangiola decisero di fondare in questo luogo un convento per suore di clausura e costruirono questa chiesa. Il Signore, però, chiamò a sé anzitempo il monsignore e l’opera rimase incompiuta. L’erede di questi, il comm. Benedetto Minichini, si trovò con questa chiesa semicostruita senza sapere cosa farne, anche perché nel frattempo l’idea del monastero di clausura era diventata obsoleta ed un po’ fuori tempo. Il priore della Congrega dell’epoca, Tommaso Scotto di Carlo, prese la palla al balzo e si offrì di comprare la chiesa in costruzione per farne la sede della congrega dei Turchini. Il commendatore accettò e fu così che “con rogito per notar Michele Schiavo di Procida”, il giorno 1 agosto 1885, essa fu ceduta alla “Congregazione dell’Immacolata dei Turchini” per la modica cifra di Lire 3000 e con l’obbligo di intitolarla a S. Tommaso D’Aquino, Santo della famiglia Scotti – Minichini. E tu pensi che la questione sia stata risolta in modo trasparente e naturale. Neanche per sogno! Nel solco delle migliori tradizioni causidiche ecclesiastiche procidane qualcuno si premurò di informare la Prefettura di Napoli del fatto che la Congrega non aveva il denaro necessario per procedere all’acquisto. Questo non era vero perché i Turchini ce l’avevano e come i soldi! Il passaggio della proprietà, però, di fatto fu bloccato fino all’ottobre del 1889 quando la Curia di Napoli autorizzò l’acquisto ed il successivo trasferimento della Congrega dalla chiesa di S. Michele alla nuova sede. Fu così che il 29 agosto del 1892 i Turchini con processione solenne passarono alla nuova ed attuale struttura. Ma perché – la domanda ti viene naturale – I Turchini ci tennero tanto a lasciare, dopo oltre trecento anni, la primitiva sede di S. Michele per trasferirsi dove sono adesso? E qui ti inoltri in un ginepraio di motivazioni che lasciano un po’ il tempo che trovano. Una bolla del cardinale Alessandro Farnese del 16 febbraio 1588 sancisce la nascita presso l’Abbazia di S. Michele in Procida di una Congregazione dell’Immacolata Concezione. Dall’archivio di questo sodalizio si evince, poi, come successivamente i padri Gesuiti provvidero a dare delle regole all’associazione e a stabilirne i compiti e le finalità. Difatti dallo Statuto della Congrega risulta che: “Il 16 del mese maggio dell’anno 1627 fu eretta a Procida presso l’abbazia di S. Michele la congregazione de’laici sotto l’invocazione della beatissima Vergine e sotto la protezione delli gloriosi S. Giuseppe, S. Michele, S.S. Ignazio e Francesco Saverio S.J e ricevette dai PP Gesuiti il suo Statuto”. La congrega dei Turchini fin dall’inizio fu essenzialmente popolare perché i suoi adepti provenivano dalle classi lavoratrici, quasi tutti “gente di terra”, vale a dire artigiani e contadini. In breve si formò “una platea” di circa 800 confratelli. La Congrega dei Turchini divenne un elemento insostituibile nella vita e nella gestione, anche economica, della Chiesa di S. Michele ed ebbe il compito dal Curato di provvedere anche alla “fabbriceria”nonché il diritto per i confratelli di essere sepolti nella chiesa stessa. E le cose tra i Turchini ed il curato andarono bene per centinaia di anni con soddisfazione reciproca finché…qualcosa prese ad incrinarsi: Il primo vedeva di mal’occhio il potere che man mano acquistavano i confratelli e questi mal sopportavano la supremazia del curato. I tempi erano maturi per un divorzio. Allorché si presentò l’opportunità di entrare in possesso di una nuova chiesa, il priore dell’epoca non si lasciò sfuggire l’occasione e procedette all’acquisto di questa sede. La cosa fu mal digerita dal curato del tempo, don Nicola Ricci, che vedeva nel trasferimento dei Turchini una perdita consistente a danno della chiesa madre sia di una parte del suo potere spirituale che di quello economico. Mentre pensi queste cose senti una mano che ti si poggia sulla spalla: è l’attuale priore Gabriele Scotto di Perta. Gli esponi le tue perplessità ed i tuoi dubbi. Lui, con il suo sguardo miope e l’espressione sorniona, concorda con te che la storia della congrega contiene molte luci, ma anche qualche ombra. Come tutte le cose di questo mondo. Poi, quasi come se fosse convenuto tra voi, entrambi rivolgete lo sguardo al Cristo Morto lì vicino: Signore Gesù Cristo, pensaci tu!
Giacomo Retaggio