VERSO UN FUTURO MIGLIORE? DI ANTIMO PUCA

«Non ci sono né cattive erbe né uomini cattivi. Ci sono solo cattivi coltivatori» si chiude con questa citazione di Victor Hugo I Miserabili, film di Ladj Ly, già autore di riprese delle violenze poliziesche nel quartiere dove è cresciuto, a Les Bosquets, nella periferia parigina. Il regista ha sempre usato la camera da presa come difesa contro gli abusi di potere della polizia francese, che spesso si comporta da vero e proprio esercito di occupazione al contempo pretendendo integrazione e trattando i suoi cittadini come colonizzati senza diritti né umanità.  La violenza è lo strumento con cui viene gestito il disordine nel quartiere di Montfermeil, periferia di Parigi. Paura, e non rispetto, legano gli abitanti ai poliziotti. Scambi di vantaggi, e non diritto e responsabilità individuale davanti alla legge, legano le bande, la politica e la polizia. Omertà e giustizia vengono confuse nel quotidiano controllo della pace sociale, in realtà una guerra a bassa intensità. La frase di Hugo sembra voler assolvere – o forse incoraggiare – i ragazzi che si ribellano ai padri – e sono padri, e non madri infatti i responsabili della violenza poliziesca e criminale. La frase di Hugo sembra voler dare la chiave di lettura del film. La violenza è del sistema e non degli attori sociali.
È il problema di alcune politiche identitarie di chi è dominato: nella denuncia dell’ingiustizia subita non si vede ciò che unisce ad altri oppressi. E si fa dello stigma un oggetto di orgoglio, con esiti spesso paradossali come denunciò già Frantz Fanon. Morte prematura spesso disconosciuta da chi è solito denunciare la violenza di chi è oppresso e insorge, senza riconoscere quella di sistema, del welfare, del mercato del lavoro, dell’integrazione subalterna. Non ci può essere critica della violenza che non sia anche critica delle ingiustizie che la favoriscono. Il poliziotto buono, protagonista del film, rappresenta le forze democratiche. Ma è una democrazia ben misera, un’umanità piuttosto disumana quella di chi non si ribella, di chi accomoda. Le rivendicazioni non ascoltate dalla democrazia formale, dai buoni, non sono solo le espressioni politiche della rabbia, ma anche le forme di vita che si esprimono dentro e contro la miseria dei ghetti, dalla piccola criminalità, alla solidarietà, all’organizzazione della comunità. Non si tratta ovviamente di ridurre tutti i fenomeni a un’unica matrice socioeconomica, ma come la crisi sociale provoca rafforzamenti identitari in chi ha poco altro su cui contare, così anche alcune scelte religiose possono essere lette in relazione al contesto di deprivazione in cui si sviluppano. La politica dei ragazzi romperà questa politica degli adulti. «Tu sei nuovo, non puoi capire», dicono i poliziotti del quartiere al nuovo arrivato sgomento davanti all’arbitrio sessista del superiore. La violenza, l’abuso e la collusione non sono l’eccezione nella regolazione dell’ordine, sono la norma. Il film si chiude con la scelta, la responsabilità, subito dopo negata dalla frase di Hugo che apre i titoli di coda. E però la verità non sta nella negazione deterministica della capacità morale dell’individuo, ma forse proprio in essa, in quella capacità di dire no, di tracciare la linea di cui parlava Albert Camus, nella disobbedienza civile. Il disaccordo che fonda la politica può non avere un esito mortale.

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