Il tempo della nostra infanzia si caratterizzava anche nel seguire, di tanto in tanto, la mamma che andava “a fare la spesa” nelle botteghe del paese. In prevalenza di generi alimentari. Il mercato esisteva solo nei centri più grandi ove, tanto i pescatori quanto i contadini, portavano i loro prodotti che esponevano, certi della loro freschezza e integrità, ad ogni verifica pre-compera. Sull’isola d’Ischia il commercio delle piccole botteghe è andato progressivamente scemando e, con la loro chiusura, si sono persi, progressivamente, anche i paesi. Domenica 4 febbraio il Corriere della Sera ha dedicato un ampio servizio all’argomento, pubblicando, come foto di supporto, la piazza di S.Angelo ove, nel periodo che corre, dalle 17,30 di sera cala una sorta di coprifuoco che consente ogni cosa (di cui già abbiamo informato i nostri lettori). L’unico paese rimasto strutturato come tale, che cito spesso in queste mie divagazioni settimanali, è Panza, bella frazione di Forio, ove le antiche botteghe sopravvivono e reggono, sia pur con fatica, l’assedio asfissiante di tre ingombranti supermercati. Il merito è solo dei bottegai panzesi verso i quali la politica locale ha sempre riservato poca attenzione. Ignorando che le piccole botteghe oltre a sviluppare la socialità sviluppano economie che riducono fortemente gli sprechi di chi frequenta i supermercati. Nell’ agorà panzese trovi di tutto. Dall’edicolante al macellaio, al panettiere, al fruttivendolo, all’emporio, al bar, al pasticciere, al gioielliere, al venditore di scarpe, alla cartoleria, alla pescheria, al venditore di strumenti musicali. Alla chiesa! Praticamente tutto. A pochi passi c’è l’ufficio postale e fino a pochi mesi fa c’era uno sportello bancario molto operoso che certe politiche dissennate hanno fatto sopprimere. Alcuni giorni fa, nonostante la bella giornata di sole e un’arietta frizzante, Panza appariva svuotata.
Sembrava uno di quei paesi, che abbiamo visto in talune fiction trasmesse in ricordo del “giorno della memoria” ove, paventandosi l’arrivo delle SS, tutti erano muti e vigili agli angoli delle strade. Vado a comprare un po’ di stoccafisso (‘u stoccapaisc’ si dice a Panza) e il commerciante, che in genere ha un ottimo “coroniello”, con aria sospetta e stizzita, “non ne vendiamo”. Vado alla ricerca di un minestrone fresco e mi sento rispondere, con distacco, “nell’armadio frigo c’è la busta sigillata”. Giro due o tre botteghe e le risposte sono sempre le stesse! Incredulo sto per andare via, quando una “vedette” all’orecchio mi sussurra “stammatin’ e e frisc nun truvat nient. Ce sta l’asl in gir”. Sgrano gli occhi e avvertendo una sorta di accerchiamento, mi sembra quasi di avvertire il rombo dei bombardieri della RAF che mi volteggiano sulla testa e le sirene della contraerea che ululano. Capisco che è uno stato d’animo parossistico e cerco un po’ di sollievo in un bar ove so che posso consumare anche un’ottima crostata alla frutta. Aimè il piatto nell’espositore era vuoto e lucente. L’occhio rotolante del barista e un cenno del capo mi fa capire che mi devo fermare al caffè. Nell’imbambolamento che patisco, tra i rombi degli arei e le sirene della contraerea, mi scatta la curiosità di comprendere quel terrore serpeggiante, dai bottegai agli avventori. Non è stato difficile capire che in Italia legislatori, evidentemente disturbati (per dirla alla De Luca), hanno partorito normative che dire monstre è un eufemismo. Ogni prodotto diretto alla consumazione alimentare deve essere imbustato e sigillato all’atto della sua produzione (come se la filiera successiva fosse in appannaggio a manipolatori e avvelenatori). Sulla busta deve essere annotato il nome del produttore, il tempo di produzione, la data di scadenza, le proprietà nutritive e una serie di altre indicazioni che nessuno legge (le buste si stampano a milioni di pezzi), salvo a scoprire che, spesso, riguardano altre cose o rinvenire una lucertolina o una lumaca finita per caso nell’insalata, un topolino trapassato in quella dei formaggi, qualche oggetto poco commestibile nelle buste delle mozzarelle o qualche cefalo al posto dello stoccafisso. La cronaca ci informa che è successo e succede!! E, sapendo che è difficile dare la prova di una colpevolezza (che la si può scoprire solo dopo l’apertura della busta che trasporta il prodotto che, in genere, si butta subito), il cittadino evita anche la denunzia, il patimento degli interrogatori, la spesa dell’avvocato etc, etc, etc. Di tanto in tanto qualche avvelenamento sospetto costringe alla lavanda gastrica e solo se al pronto soccorso c’è qualche medico che si indispettisce, partono gli accertamenti dei quali, però, la cronaca non ha mai restituito esiti di rilievo. In conseguenza di ciò, siamo giunti al punto che se un gestore di un bar vuole servire ai propri clienti (che non aspettano altro!) un “dolce della casa”, deve prima conseguire il diploma di pasticciere, avere la disponibilità di ambienti e macchinari specifici, superare periodicamente corsi di aggiornamento (a pagamento) e poi, forse, potrà predisporre quella crostata che, tutti i giorni, senza burocrazia e senza diplomi, mangiamo nelle nostre case. Domanda: “Potrà mai l’Italia, di fronte a un mostro così grande invertire la deriva fallimentare in cui legislatori inetti l’hanno infilata?”. Pur in presenza di qualche segnale positivo (come quello sull’uso dei fitofarmaci in agricoltura o di qualche apertura ai carburanti fossili) io dubito che in breve tempo ci si riuscirà. Per mio conto e senza con ciò voler stimolare percorsi poco virtuosi io continuerò ad andare a godere il piacere del panino fresco con la mortadella, a cercare il minestrone con le verdure fresche o un pezzo di stoccafisso “’u curuniell” che fa leccare i baffi anche da crudo. Alle “stronzate” scritte sulle buste sigillate, preferisco la serietà del mio piccolo negoziante che mi offre prodotti freschi di mare e di terra. Senza aver mai patito avvelenamenti di sorta! Quando ho desiderio di buste sigillate vado al supermercato acuntovi@libero.it