RELATIVISMO GIUDIZIARIO: ESISTE? DI VINCENZO ACUNTO

Il “relativismo culturale” è quella filosofia secondo la quale le parole, “giusto” o “sbagliato” sono termini specifici per ogni cultura. Ciò che viene considerato morale in una società potrebbe essere immorale in un’altra e poiché non esistono degli standard di moralità universale, nessuno ha il diritto di giudicare usi e costumi di un’altra società”. I media in questa settimana hanno posto in risalto due vicende particolari:

1) a Brescia un pubblico ministero dopo aver istruito un procedimento, nei confronti di un islamico, accusato dalla moglie di violenze di ogni genere, aveva chiesto di riconoscersi all’imputato le attenuanti generiche considerato che tanto lui che la moglie (di anni 27 nata e cresciuta in Italia) erano di cultura islamica ove maltrattare una donna non è reato. La richiesta era motivata disquisendo dei fattori culturali del suo paese non sindacabili, a suo dire, nella ns. società

2) a Roma un giudice ha condannato una mamma che, sorpresa la figlia dodicenne ad inviare, con il proprio cellulare, foto osè ad uno sconosciuto, le aveva rifilato uno schiaffo. Un anno e sette mesi di carcere. Queste le notizie che pur apparendo diverse appaiono intimamente collegate in virtù di un certo relativismo culturale. Sia pur con diversità. Il pubblico ministero di Brescia non ha assolto nessuno (l’assoluzione è del Giudice che è figura diversa e allo stato non si sa cosa abbia fatto), quello di Roma ha condannato una mamma attenta. Quest’ultima vicenda meriterebbe un seminario di studi sul concetto di “abuso dei mezzi di correzione o di disciplina” di cui all’art. 571 del codice penale, visto lo stato in cui è precipitata la società giovanile italiana. Mettendo a confronto gli interventi e le decisioni del giudice su detta norma dal 1930 (periodo fascista) ad oggi e valutando gli effetti nella società dell’evoluzione del significato applicativo del concetto di abuso certamente apparirebbe chiara la “relatività considerativa” della decisione del Giudice di Roma. La vicenda di Brescia sarebbe rimasta confinata tra le mura del palazzo se non fosse precipitata sui media che, in modo grossolano, l’hanno così diffusa “Giudice Italiano ritiene non colpevole marito islamico che maltratta e riduce in schiavitù la moglie in quanto per la loro cultura di base non è reato”. A mio parere è stato un modo vergognoso di porre la notizia che ha determinato levate di scudi incredibili. In un contesto come quello italiano ove le uccisioni e le violenze sulle donne sono all’ordine del giorno, la notizia si è sparsa a macchia d’olio e sono partite le richieste più disparate contro l’incauto pubblico ministero, contro la Procura di Brescia e contro la magistratura in genere (che non sono solito osannare). Sulla spinta mediatica il procuratore capo di Brescia, che alle prime era rimasto silente, ha fatto la seguente dichiarazione “la procura di Brescia ripudia qualunque forma di relativismo giuridico, non ammette scriminanti estranee alla nostra legge ed è sempre stata fermissima nel perseguire la violenza, morale e materiale, di chiunque, a prescindere da qualsiasi riferimento ‘culturale’, nei confronti delle donne”. Leggendo più volte mi son convinto che dichiarazione è stata come “una pezza inutile” se non a far risaltare ancor di più il buco. Ammesso che di buco si potesse parlare. Bisogna infatti considerare che è obbligo del pubblico ministero (come continuamente si chiede sulla stampa) capire e riferire al giudice che dovrà decidere se, nel fatto che si contesta ad una persona, possono esserci elementi che aiutano a rendere comprensibile il perché egli non si accorgeva che stava compiendo un reato. E il pubblico ministero ha detto che nella cultura dei loro paesi d’origine “maltrattare una donna” non è reato. Perché ci si scandalizza tanto se tale facoltà è anche dell’avvocato che assistendo il reo cerca con le sue conoscenze giuridiche e culturali di far apparire meno grave il fatto commesso al fine di ottenere uno sconto di pena? Io non vedo lo scandalo. Scandalo infinito è, accogliere in Italia persone che non accettano le nostre leggi, la nostra cultura, le nostre tradizioni, le nostre educazioni. Ritornando ai due casi, l’argomento che merita qualche riflessione è il concetto di “relativismo giuridico”, del quale ha parlato il procuratore di Brescia che, escludendolo dalla sua sfera territoriale, ha rimesso “la palla in campo”, lasciando intendere che esiste altrove. Secondo una prassi per la quale, in rispetto dell’antico brocardo “tot capita to sententiae”, ognuno fa come crede.  Non ho difficoltà a ribadire il concetto che le pagine della giurisprudenza italiana confermano sempre di più. Il dato di fatto è che, a forza di fare ognuno come crede, siamo diventati un paese ove ci sono donne che si riducono in schiavitù, si maltrattano, si stuprano, si uccidono, si rapiscono bambini e, nessuno “formalmente” sa nulla. Tutti in attesa della “querela” come ha statuito l’ex ministro Cartabia. Facciamo qualche esempio: Firenze Hotel Astor (centro della città) una bambina è scomparsa da tre mesi e nessuno sa che fine ha fatto. L’albergo a causa della pandemia aveva chiuso bottega. Rotte le serrature era occupato abusivamente e sfruttato da immigrati irregolari. Il proprietario (dicono i media) aveva fatto inutilmente una serie di denunce e mai nessuna autorità era intervenuta per “ripristinare la legalità”. La bambina è scomparsa e veniamo a sapere che in quell’edificio si consumavano reati in quantità industriale. Nessuno lo sapeva? Nessuno aveva visto nulla? Non è possibile. Il Ministro degli interni farebbe meglio il suo dovere se sospendesse immediatamente il prefetto e il sindaco di Firenze e rimuovesse dagli incarichi il questore, il comandante dei carabinieri, della finanza e dei vigili urbani per manifesta incapacità ad evitare il perpetuarsi di reati e abusi gravi a danno della proprietà privata, delle persone e della sicurezza pubblica.

Idem per Caivano. Dopo l’arrivo del presidente del consiglio abbiamo assistito ad una prima esibizione di forza dello Stato con un gruppo interforze che ha passato al setaccio una buona parte del quartiere scovando tante illegalità. Non s’era manco ritirato che la criminalità (in evidente manifestazione di relativismo culturale) la marcato la sua presenza a colpi d’arma da fuoco. Segno tangibile del radicamento stretto della malavita col territorio.

Ora considerato che il Parco Verde di Caivano come le Vele di Scampia sono noti all’opinione pubblica nazionale e oltre per essere, da anni, zone ad alta concentrazione criminale, come mai lo Stato, e per esso quei funzionari che territorialmente lo rappresentano, prima del viaggio del premier, non hanno mai sentito il dovere di affermarne la presenza e la forza in un contesto sociale dove: si buttano dal balcone bambine che  rifiutano lo stupro, ci si spara come nel far west e si vende droga in quantità? È credibile che nessuno, prima che sul posto andasse il premier, ha sentito i preti che, in televisione, continuamente denunciano o visto ciò che è sotto gli occhi di tutti? Non è affatto credibile per cui bene farebbe il Ministro se organizzasse per i suoi sottoposti una visita dall’otorino e dall’oculista rimuovendoli, senza indugio, dai loro incarichi. O dobbiamo convincerci che si è in presenza di un “relativismo culturale e quindi giudiziario e quindi di polizia” per il quale ognuno fa quello che vuole? acuntovi@libero.it

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