OPINIONI. “IL VIDEO DEL PAZIENTE MORTO AL “CARDARELLI” E IL SONNO DELLA COSCIENZA”, DI CLAUDIO IACONO

La vicenda del video del paziente morto all’Ospedale “Cardarelli” di Napoli è solo l’ultimo episodio in ordine di tempo capace di farci riflettere sui limiti della massificazione dell’informazione, del social network utilizzato come mezzo di denuncia. L’oggetto della mia attenzione è rivolto non al cadavere in sé, o alle cause della sua morte, o al fatto che si trovasse in bagno da chissà quanto tempo, ma piuttosto alla opportunità di veicolare in maniera becera quelle immagini attraverso i social network. Credo che più a rispondere alla logica del fare informazione, certe pratiche non facciano altro che rispondere alla logica dello screditamento, dell’odio, del provocare facilmente indignazione magari anche provando a strumentalizzare immagini e parole. L’Italia ha già conosciuto in passato l’orrore del dolore spiattellato in prima pagina, nel 1981 a Vermicino, a pochi chilometri da Roma, quando il piccolo Alfredo Rampi cadde all’interno di una buca rimanendovi per circa 3 giorni. In quei 3 giorni furono impegnati uomini e mezzi di ogni tipo, dalle gru ai nani da circo nel tentativo di tirare fuori da una semplice buca nel terreno quel bambino di 6 anni. Un bambino di 6 anni che diventò in quei pochi giorni famosissimo, visto che anche la televisione si interessò al suo caso, arrivando a calare all’interno della buca anche un microfono. “Aiutatemi”, “mamma”, “ho paura”, più o meno questi i contenuti strappati al piccolo Alfredo Rampi, 6 anni, e spiattellati senza coscienza in televisione in un orribile spettacolo, terminato con la morte del piccolo e con l’estrazione del suo corpo. Tanti dei protagonisti a vario titolo di quella vicenda mediatica, che ritenevano di svolgere in quel momento il loro lavoro di cronisti, si sono poi pubblicamente vergognati per lo squallore che hanno regalato a milioni di persone. Anni dopo diranno, quei giornalisti, di aver agito senza comprendere bene le conseguenze delle proprie azioni, che si trattava di una specie di esperimento televisivo dovuto anche alla vicinanza del sito dell’incidente con la città di Roma, la città della televisione. Ebbene, quella vicenda, quel dolore, quella sofferenza, quello squallore, non hanno purtroppo lasciato alcuna traccia nella nostra società. Non abbiamo imparato a gestire il dolore. Non abbiamo imparato che fare informazione è difficile per chi lo fa per lavoro, figurarsi per un panettiere, un muratore o un infermiere, abituati ad altro. Non abbiamo imparato che sbattere le cose in prima pagina non è sempre un bene, a meno che l’obiettivo non sia accumulare spettatori, provando a trarre un più o meno effimero profitto dalla sofferenza. Abbiamo ceduto al sensazionalismo, ai titoloni. Abbiamo ceduto alla cultura dello scandalo ricercando nei “like” il consenso altrui senza nessun limite, senza nessuna umanità, pronti a finire poco dopo in una specie di torpore, con una vocina ovattata, quasi impercettibile che prova a dirci qualcosa, senza successo. Quasi non la riconosciamo più, la nostra coscienza.

CLAUDIO IACONO

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