MIA MADRE… PARLANDONE AL PASSATO. DI VINCENZO ACUNTO

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Miei cari lettori, mi perdonerete se oggi utilizzo questo spazio non per commentare eventi o lo stato di cose che ci circondano, ma per compensare un bisogno, strettamente personale, che, purtroppo, mi obbliga ad utilizzare i verbi al passato. Un passato che, mentre mi allevia la mente, mi bombarda il cuore, mi toglie il respiro, mi mette in volo, mi precipita a terra. Martedì 27 settembre la mia mamma è morta. Dopo aver scherzato con me, offertomi il caffè dalla sua tazzina “facimm’ nu poc’ a te e nu poc’ a mé” e dettomi per l’ultima volta “mo’ vai ca tien’ cheffà”, dandomi un bacio, ha lasciato trascorrere un’ora e si è addormentata nel sonno eterno. Il suo letto oggi è vuoto, la casa è senza i suoi rumori, io sono senza i suoi rimproveri. Tutti siamo senza di lei ed io mi sento vuoto come un tronco cavernoso.

(mamma coi nipoti)

Svuotato da un evento improvviso che fossilizza la mia mente nel ricordo di lei. Con gli occhi che si rigonfiano di lacrime che, copiose, si riversano a rigare il volto, pur sapendo che per tutti è stato così, mi sembra che il mio dolore non ha confini. E, in questo stato confusionale, mi ritornano martellanti i tanti, infiniti e purtroppo finiti, momenti di una vita con mamma la cui esistenza, intensa e sempre curiosa, tra i suoi affetti e le sue piante, cercherò di riassumerla in un racconto che spero di saper adeguatamente articolare, con l’uso dei verbi al passato.

(mamma coi figli)

Al lettore che mi segue, offro, in rilettura, un mio precedente che donai alla mamma in occasione del suo novantesimo compleanno. Pezzo che lei lesse lentamente per rimproverarmi immediatamente dicendomi “come ti sei permesso di scrivere sul giornale di me e di tuo padre?”. Salvo poi a farsi fare, da qualche nipote, le fotocopie che, in mia assenza, donava, fiera, alle amiche che l’andavano a trovare! E, ritenendo di fare cosa gradita a mamma, auguro buona lettura ringraziando tutti coloro che hanno partecipato o comunque condiviso il dolore mio, delle mie sorelle e nipoti. Ciao Mamma. acuntovi@libero.it

dall’archivio personale e del quotidiano  “Il Golfo” del 21.2.2016

Un romanzo di vita in una grande storia d’amore    di Vincenzo Acunto

 Il 20/02/1926 a Calvi Risorta (CE) nasceva Barbara Zona. Oggi, nel paesello di S.Angelo ove giunse, appena maritata, in una calda mattinata di giugno del 1947, al seguito di  un giovanotto del posto che aveva conosciuto qualche anno prima in circostanze non proprio romantiche, ella compie i novanta anni.

(mamma e papà)

Non di paura, come la smorfia napoletana aggettiva il numero, ma di festa insieme ai suoi tre figli, generi, nuora, otto nipoti, cinque pronipoti e tanti amici. Era il 1943 quando Cupido, fregandosene del dramma della guerra e della fame, ci mise lo zampino. Il giovanotto santangiolese, in fuga dalla guerra (aveva salvato la pelle dalla disfatta di Stalingrado, era riuscito a rientrare in Italia tra i resti di un esercito in disfatta e a piedi si muoveva da Roma verso Napoli per rientrare a casa), stremato, trova cibo ed ospitalità in una cascina di campagna, vicino Teano, gestita da un dinamico agricoltore con i suoi figli.

(mio padre)

La giornata volgeva al termine e l’agricoltore, mosso a compassione per quel giovane, gli intimò di non andare via perché i paesi limitrofi erano pieni di camionette tedesche, il cui esercito stava bombardando Cassino. Insieme all’agricoltore ed ai figli, sulla carretta trainata da un asino, il giovanotto fu condotto nella casa del paese e, al momento di mettersi a tavola, lui garbato e timido, incrociò con lo sguardo Barbara. Una ragazza di una bellezza particolare: alta, bionda con capelli ricci e occhi celesti e con un carattere scoppiettante. Zacchete: e Cupido lanciò la freccia. Tre giorni di sosta forzata, conditi da un rastrellamento dei militari tedeschi e dall’esplosione di una granata, che ferì anche il giovane, servirono a impressionargli nella mente, tra le brutture della guerra, le fattezze di Barbara e la sua voce canterina.  Tornò a Sant’Angelo con il tarlo nel cervello. Provava a scacciarlo ma ritornava più insidioso che pria. Fino a quando, non riuscendo più nell’impresa, impossibile per ogni uomo, di allontanarsi da Cupido, decise, (a guerra finita 3 anni dopo) di andare a ringraziare i suoi salvatori. Ritornò al paesello casertano con uno zainetto sulle spalle, con dentro un solo regalo: un paio di zoccoli per Barbara. Anche la misura del piede gli era rimasta impressa nella mente. Quando arrivò a casa lei era a lavorare nei campi, canticchiando come sempre. Un fratello, Gabriele, corse da lei a portargli la notizia che era ritornato quel giovanotto, tal dei tali. Ammutolì di colpo riuscendo solo a dire “Chi Michele?”. Evidentemente Cupido aveva segnato anche per lei il destino.  L’anno dopo Barbara e Michele convolarono a nozze e dopo una luna di miele di una notte, insonne e movimentata, in una pensioncina di Napoli, Barbara si trasferì a Sant’Angelo.

(la mia casa)

Dal Beverello tre ore e più per Ischia; poi in pullman fino a Panza e da lì a piedi per i sentieri dell’epoca, fino a Sant’Angelo nella casa che si vede in una foto dell’epoca. Una cucina e il cellaio a piano terra, una camera da letto a primo piano. Vi si accedeva da un viottolo ripido e sterrato che durante la pioggia diventava un ruscello. L’acqua potabile: da usare con parsimonia in quanto l’approvvigionamento dipendeva solo dalla pioggia (e la stagione estiva era lunga); il mangiare pure scarseggiava. La luce quella del sole di giorno e del lume a petrolio la sera a bassa luminosità in quanto il petrolio lo si comprava erano gli strumenti di illuminazione. La poveretta, resasi conto del salto compiuto, si vide alla fine del mondo, abituata com’era a non lesinare nulla sia nel mangiare che nel bere o nell’usare l’acqua. Dal benessere casertano (dell’epoca) alla fame di Sant’Angelo ove, come in un rito di iniziazione affettiva, patì (fatto mai accettato per tutta la vita) la modifica del suo nome da Barbara in Barbarina. Ma l’amore, quando è grande, vince ogni cosa. Barbara amava quell’uomo e lui amava lei ed entrambi, poi, divennero i miei genitori, dopo due femmine. Tutti nati in casa come si usava all’epoca. A Michele qualcuno aveva insinuato il tarlo che le “levatrici”, nel seguire il parto in casa, potevano complicare il sesso del nascituro. Pur non credendoci, poiché era al terzo esperimento, in prossimità dell’evento, Michele convinse Barbara, tra mille mugugni, a spostarsi a Ischia in quella che era conosciuta come la “maternità”. La sorte ci mise lo zampino. In tre giorni di degenza il nascituro non bussò per uscire e Barbara, a cui non gli era difficile, perse la pazienza, si fece “a mappatella” e se ne tornò a Sant’Angelo ove, la notte seguente, mi diede alla luce. All’epoca non vi erano festeggiamenti di sorta, doni o omaggi costosi per la puerpera. Michele, che nei primi due vagiti femminili, agli sfottò degli amici, aveva replicato con un sagace “chi razza bbona vo ffà cù ‘e figlie femmine adda accumencià”, era al settimo cielo perché, il nato, poteva chiamarmi come suo padre e qualche bottiglia di “rosolio”, tenuta in disparte, fu messa in tavola per i festeggiamenti “necessari”. Barbara era raggiante per la gioia che dava al suo uomo con il quale ha vissuto 56 anni, dividendo con lui la buona e la cattiva sorte. Michele è stato un uomo buono, ingegnoso, parsimonioso con un alto senso dell’ironia e dell’autoironia. Mai precipitoso o improvvido. Elesse la sua donna a “regina della sua vita e di ogni sua cosa”. Quando poi per quelle strane vicende della sorte, S.Angelo, scoperta al turismo internazionale, consentì, a tutti i paesani, grandi miglioramenti economici, Michele e Barbara  preferirono investire, la conquistata agiatezza, nell’istruzione dei figli più che nelle fabbriche.

(il mio paese)

Michele da 13 anni non è più fisicamente al fianco di Barbara, ma è presente, tutti i giorni, nella vita di lei che con la stessa lena, come mette in ordine le foto del suo uomo che arredano la sua casa, mette, ancora, in riga i tre figli, gli otto nipoti e cinque pronipoti. E, richiamando, con modifica, i versi del poeta che, da piccoli, Ella ci declamava, “non sempre il tempo la beltà cancella, o la sfiorano le lacrime e gli affanni mia madre ha novant’anni e più la guardo e più mi sembra bella”, desidero, con le mie sorelle, dirle auguri Mamma. acuntovi@libero.it