DIVERSI MODI DI PATIRE IL DOLORE. DI VINCENZO ACUNTO

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Tra gli utilizzatori delle classi professionali italiane, solo gli utenti dei medici e delle strutture sanitarie
vengono aggettivati col termine “paziente” che, dall’etimologia della parola, è colui che è condiscendente,
indulgente, tollerante, calmo, comprensivo, docile, mansueto, mite, tranquillo. Caratteristiche che sono
tipiche di chi versa in una condizione di fragilità e si contrappongono con quelle dei familiari che, rapiti nella
paura di un sistema che

funziona con organizzazioni e ritmi dipendenti dalla latitudine geografica,
sviluppano una sindrome opposta che va dall’ansia all’angoscia, all’ inquietudine, al nervosismo che,
spesso, si traduce in reazioni violente

verso quel mondo che, fisicamente, si frappone tra i loro
affetti. Ho già altre volte posto in risalto i grandi disagi che patisce una persona che per ventura deve far
ricorso al sistema sanitario italiano che, specialmente al sud ed in particolare qui da noi, è ulteriormente
peggiorato a seguito del covid, e purtroppo, sono anche aumentate anche le reazioni dei familiari. In
sintesi, oggi, la situazione è la seguente: arrivato al pronto soccorso si viene affidati al primo che si presenta
con una divisa (che -tranne i portatori- nessuno è in grado di individuare la mansione). Da quel momento il
malato è assorbito nel circuito sanitario ed il familiare resta in attesa delle notizie che, con molta
parsimonia, gli vengono rilasciate con informazioni quotidiane rilasciate, per la gran parte degli ospedali,
nella hall dell’accettazione, tra altri ansiosi

di sapere dei propri cari. Con linguaggio sbrigativo e con
terminologie spesso incomprensibili. Salvo la telefonata, anche in piena notte, di un interlocutore che,
facendo il nome del “paziente”, ti comunica “purtroppo il vostro parente non ce l’ha fatta. Se volete
vederlo tra una mezz’ora lo si porta in camera mortuaria ove potrà essere vestito”. Ci si desta di
soprassalto, si cerca qualcosa per poter “vestire il cadavere”, si esce di corsa e si raggiunge l’ospedale ove
vai alla ricerca della camera mortuaria (che in taluni presìdi, per una sciccheria linguistica (?), è scritto in
francese “morgue”)

ove non c’è nessuno che ti dice se “il tuo morto” è già arrivato o meno. Per cui si resta
in attesa che giunga un drappello con un contenitore e, per sapere se è il tuo parente, che giunge arrotolato
in un lenzuolo

come una mummia e nessuno ti dice il nome, devi scoprire il volto per accertarti. Se è
il tuo e se riesci a vincere lo sconforto, la disperazione o il disorientamento che ti assale (in un tempo nel
quale c’è sempre qualcuno che ti suggerisce la ditta per la cerimonia) riesci anche a vestirlo onde evitare
che la rigidità che si determinerà fino al giorno dopo, obblighi gli addetti che incaricherai a fare qualche
manovra cruenta. La scorsa estate venni informato che un mio caro amico, per un incidente domestico, era
ricoverato in una struttura ospedaliera e stava molto male. Nessun familiare poteva fargli visita e lui stava
in attesa che le cose evolvessero, aspettando che la mattina passasse un infermiere con un termometro,
poi qualcun altro che gli chiedesse “come va?” o chi gli facesse il letto facendolo rotolare prima su di un lato
e poi sull’altro e, ogni tanto, un prelievo. Da un semplice acciacco osseo, la condizione di “paziente”
evolveva progressivamente in peggio in quanto, non potendo avere la vicinanza di un familiare, la
depressione della solitudine l’aveva assalito e le patologie aumentavano. Riuscii a raggiungerlo
telefonicamente e dopo il disorientamento iniziale per farmi riconoscere, mi disse “non ce la faccio più. Qui
dentro fa un caldo bestiale, vivo abbandonato, mi sento sporco, non posso lavarmi, ho bisogno di una
doccia, sento che puzzo e non mi posso muovere. I miei familiari mi portano la biancheria ma non li posso
né incontrare né vedere. Sono entrato per una lesione ossea e si stanno verificando una serie di problemi
che non ho mai avuto prima. Non riesco nemmeno a grattarmi se ho un prurito”. Restai sbigottito e senza
parole andando alla ricerca tra gli amici che qualcuno potesse aver accesso per portargli qualche parola di
conforto. A fine luglio avendomi egli comunicato che i medici andavano in ferie e che “se voleva”
l’avrebbero mandato a casa, lo invogliai a firmare per tornare tra i suoi affetti ove dopo due mesi, con le
attenzioni dei familiari e di qualche terapista, il mio amico è ritornato la persona di prima. Ho portato
questo piccolo esempio (che potrei replicare per centinaia a mia conoscenza) per far risaltare come certe
disposizioni (in parte giuste per il tempo pandemico vissuto) che impongono l’allontanamento dei familiari
dagli ospedali, contribuiscono non solo a stimolare certe reazioni negative (anche violente) ma anche a non
lasciare evolvere, in positivo e più celermente, la patologia che rende l’essere umano fragile e bisognoso di
attenzioni che vanno al di là della terapia medica. Sono disposizioni che vanno riviste e modificate pur nella
considerazione che ancora merita l’allerta pandemica non del tutto evoluta. Ogni malato potrebbe indicare
dei familiari che, previo tampone o altra verifica da fare all’ingresso dello stesso ospedale, a turno siano
ammessi al suo capezzale ed il problema è risolto. Non è accettabile che tutti i giorni siamo informati che a Milano,

il presidente Berlusconi, ricoverato in terapia intensiva, può avere vicino la compagna e
ricevere le visite dei familiari e degli amici (che ritengo è un diritto del malato che così guarisce prima) e se
si ricovera un pinco pallino qualsiasi, non può ricevere nemmeno la visita della moglie o di un figlio che, “se
si piscia addosso o se gli viene un prurito”, deve attendere (si dice a Napoli “ a grazia ‘u priatorio”) che passi
qualcuno a cui poter dire (se non è assopito) che avrebbe bisogno di essere cambiato. Restando per ore tra
i propri escrementi che gli procureranno altre patologie. A me sembra che il problema non è ulteriormente
rinviabile per cui stimolo le associazioni in difesa del malato affinché si adoperino (non solo per i
procedimenti risarcitori) perché i familiari siano riammessi negli ospedali (non a frotte) per assistere e
tenere compagnia ai loro cari in quanto quei luoghi devono essere considerati di cura e non di isolamento
penitenziario. Ricordiamo tutti che l’affetto e l’amore di un proprio caro, cura più di tante terapie.
acuntovi@libero.it