Non siamo fra coloro che hanno posto sullo stesso piano la terribile strage e la scelta degli Usa, con l’approvazione e perfino l’appoggio della stragrande maggioranza degli altri Paesi del mondo, compresi i tradizionali nemici, Russia e Cina, di agire con la forza per stroncare una gravissima minaccia alla loro sicurezza.
Ci riconosciamo, però, nelle obiezioni di quanti hanno visto nel modo concreto di condurre la guerra e nel trattamento inflitto in seguito ai prigionieri, non un intento di legittima difesa, bensì uno spirito di vendetta che nulla ha a che vedere con l’autentica giustizia.
Di più: all’origine di questo dramma sta, certamente, la follia di un fondamentalismo che va condannato senza riserve; ma sta anche la follia, non meno grande, di un mondo ricco che continua a sperperare le proprie risorse, mentre centinaia di milioni di persone muoiono letteralmente per la mancanza di cibo e di cure elementari. Della prima follia si parla molto, e giustamente. Della seconda i responsabili delle grandi potenze industrializzate non dicono nulla. Ci sarebbe piaciuto sentire dal presidente Bush un riconoscimento dei torti storicamente accumulati da questa potenza e un solenne proposito di eliminare, per il futuro, le cause remote di quell’odio. Ma di tale richiesta di perdono non vi è mai il minimo cenno.
Rifiutarsi di ammettere umilmente i propri torti, identificarsi con il Bene, significa rendersi incapaci non solo di percepire i termini reali della propria situazione, ma rendersi incapaci di perdonare l’altro, che viene automaticamente identificato con il Male. Da questo punto di vista, lo stile dell’Occidente evidenzia che il conflitto attuale è tutto tranne che un confronto tra prospettive diverse.
Qualcosa del genere sta accadendo pure all’interno del nostro Paese. Una polemica astiosa, una rissa senza esclusione di colpi, sostituisce con il dibattito politico. Anche qui, il Bene e il Male assoluti sembrano fronteggiarsi. Il problema è che entrambi i contendenti identificano se stessi con il primo termine e l’avversario con il secondo. In nessuna delle due parti sembra trovare spazio un briciolo di autocritica, meno che mai una richiesta di perdono, se non altro rivolta alla comunità civile. Da qui anche l’incapacità di venirsi incontro e di perdonare – senza per questo dover giustificare – le colpe reciproche.
Forse la nostra società aberrante, ridotta a satira di se stessa e a smorfia irriconoscibile, può essere capita e riscatta solo da una prospettiva che sappia unire alla pietas e all’ironia la collera. Il lievito di cui abbiamo bisogno deve contenere pure alcuni grammi d’ira biblica e ira flaubertiana. Bisogna gridare forte la propria indignazione, il «giusto sdegno» di Dante, per denunciare, a rischio spesso della vita, le ingiustizie e le violenze che alimentano le «nuove povertà». Proprio in questa simbiosi di pietas e di forte indignazione, coraggiosamente manifestata, di profonda spiritualità e di appassionato impegno civile, sta la loro novità di «soggetti politici», vigorosi e scomodi, che sanno tenere testa anche ai potenti di turno. Suor Eugenia Bonetti che lavora con tenacia e coraggio contro la tratta delle «schiave» del Duemila per il commercio sessuale e il traffico dei minori, ha messo in imbarazzo Bush. Lui aveva voluto conoscerla e le aveva chiesto: «Sister, secondo Lei, noi governanti, facciamo abbastanza contro il traffico umano?». «No, signor Presidente, non fate abbastanza», gli ha risposto impavida.
Di Antimo Puca