La bellezza del territorio, ambientale ma anche umana, assomiglia sempre più a una fiammella tenue, su cui spira, fortissimo, il vento delle speculazioni edilizie, del degrado e della devastazione. Tutto invaso, coperto, spazzato via da una colata di cemento. Grigia. Senza memoria né passato. “Una colata di cemento ci seppellirà”. È il messaggio-denuncia che ci consegna la geografia del pensiero unico del mattone. Pare che nessuno e niente si salvi. Un esercito di tesserati a un partito che non teme crisi di rappresentanza, il partito del cemento, nato da una saldatura perversa tra politica e imprenditori senza scrupoli.

(Antimo Puca)
Le regole? La scommessa è quella di far apparire tutto legittimo. Ogni operazione formalmente ineccepibile. Un sistema pensato per mettere in vendita un Bene Comune, il territorio, allo scopo di accontentare gli interessi di pochi che si arricchiscono e di impoverire tutti noi. Una mappatura completa con nomi e cognomi di affaristi, banchieri, sindaci e deputati. E di cifre messe nero su bianco. Ci siamo accorti che le ragioni addotte da coloro che pretendono di collegare lo sviluppo al cemento, sono tutte false. Le operazioni di demolizione sono state avviate dove sono stati eseguiti, sempre su disposizione della Procura della Repubblica, sequestri preventivi di lottizzazioni abusive realizzate sotto gli occhi e nel silenzio delle amministrazioni pubbliche competenti. Così come nel silenzio, davanti alla realizzazione delle costruzioni abusive sono rimasti per lunghi anni anche quegli amministratori comunali oggi increduli. I Comuni isolani sono privi di piani regolatori ed i cittadini, molti mediante le rimesse provenienti dai familiari emigrati all’estero e/o i risparmi conseguiti mediante il duro lavoro in agricoltura, hanno provveduto a realizzare il sogno di ogni ischitano medio: la costruzione della casa di abitazione ove potersi rifugiare al termine di una vita e di una giornata lavorativa, costellata di sacrifici e rinunzie quotidiane. Tale desiderio si è, purtroppo, scontrato con la dura realtà della Carta ed i Comuni hanno dovuto assicurare il rispetto della legalità, le cui conseguenze sono ricadute sui beni oggetto di tanti sacrifici e questo per la mancanza della capacità di concretizzare della classe politica. Gli Enti, su sollecitazione dell’Assessorato Regionale dell’Urbanistica il quale ha interessato la Sezione Regionale della Corte dei Conti, si trovano nella triste condizione di dovere distruggere tale patrimonio, frutto spesso di un lavoro duro ed ingrato e/o a richiederne l’affitto, in un momento di grave crisi economica. Tra il 1990 e il 2005 sono stati divorati milioni di ettari. Mangiata quasi la metà del territorio ancora libero. Nel frattempo, credete che siano diminuiti gli ischitani senza casa, le famiglie di sfrattati, il popolo dei senzatetto? Per nulla visto che ci sono ancora milioni di persone senza una casa dove vivere e che l’Italia è il Paese europeo che investe meno nell’edilizia popolare. Non solo. Da noi ci sono milioni di case sfitte. Ma anche troppi Comuni a rischio di dissesto idrogeologico. Al degrado ambientale si aggiunge quello urbanistico. Con i centri commerciali che sono diventati gli unici luoghi di ritrovo per i ragazzi possiamo immaginare la qualità della vita sociale una desertificazione totale. La mafia dell’oro grigio si specializza sempre più, affinando una vocazione tutta sua – per dirla alla Camilleri – ad assumere la forma dell’acqua, a farsi guidare, ironia della sorte, da quello stesso territorio che finisce col deturpare. E i cittadini? Stanno a guardare? Proprio no. Dove c’è un cantiere, un progetto, una grande o piccola opera, state pur certi che molto vicino ci sarà anche un gruppo più o meno organizzato di cittadini che protesta. E, sullo sfondo, un fallimento della politica come capacità di amministrare il territorio e di condividerne le trasformazioni. Nel frattempo, come biasimare quell’indignazione, quella rivolta civica che altrimenti resterebbe senza voce? Non si tratta di poveri ambientalisti un po’ sfigati. E neppure, per dirla con quelli che sanno parlare bene, di semplice sindrome “Nimby” (acronimo inglese per Not In My Back Yard, “Non nel mio cortile”). In tanti centri, grandi e piccoli, l’indignazione si organizza, provocata com’è dalle speculazioni edilizie che nascono dal poco amore verso il territorio. Questi comitati spontanei hanno dalla loro parte anche una legge, quella del 1986 che disciplina in materia di protezione ambientale. Con la scusa di sconfiggere l’egoismo territoriale, si minacciano in questo modo i cittadini che volessero agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, privandoli della tutela sancita dall’articolo 24 della nostra Costituzione. Tutela a cui i poteri forti sbarrano il passo. Opzione zero cemento. È questo l’happy end o, meglio, l’indicazione di un orizzonte possibile. Non la morte dell’edilizia ma il recupero del territorio. Che vuol dire basta all’urbanizzazione selvaggia, alla moltiplicazione di nuove costruzioni del tutto slegata da un’istanza di giustizia sociale, ma l’utilizzo intelligente di quello che già esiste e può essere convertito in servizi ai cittadini. E dunque la domanda: ma il cemento conviene davvero? In altre parole: è vero che garantisce lavoro, denaro e investimenti? Ecco la risposta: In realtà sono investimenti a tempo limitato, che utilizzano manodopera non qualificata e che, nel frattempo, si stanno letteralmente mangiando la nostra risorsa migliore, il patrimonio ambientale, il territorio e, dunque, il turismo. Concludendo, è più il denaro che si perde che non quello che si guadagna.
di Antimo Puca