28 LUGLIO 1883. 141 ANNI DAL TERREMOTO CHE MISE IN GINOCCHIO L’ISOLA D’ISCHIA

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Sono passati 141 anni da quel 28 luglio 1883. Una data indimenicabile, purtroppo, per gli abitanti di Casamicciola e, in generale, dell’isola d’Ischia.

Erano le 21.30 circa quando un violento terremoto colpì il comune termale e le zone limitrofe: Lacco Ameno e Forio, provocando 2.333 morti. La scossa fu valutata con un magnitudo di 5.8. Le prime notizie del disastro giunsero a Napoli verso la mezzanotte del giorno stesso, ma la macchina dei soccorsi, anche a causa delle difficoltà nelle comunicazioni, non funzionando più il telegrafo, si mosse con una certa lentezza. Il sisma era stato preceduto da un fenomeno di minore intensità, del IX grado della scala Mercalli, il 4 marzo 1881, che già aveva arrecato rilevanti danni, tanto da spingere a raccolte fondi sin da Genova. Le località maggiormente colpite erano state Casamicciola e Lacco Ameno. La scossa, durata sette secondi, aveva provocato 126 morti e un numero imprecisato di feriti Genova

Tra i sopravvissuti al terremoto dell’83 c’era anche il filosofo e futuro membro dell’Assemblea Costituente della Repubblica italiana, Benedetto Croce, che all’epoca aveva 17 anni. Suo padre, sua madre e sua sorella persero invece la vita. Venne estratto vivo dalle macerie, con fratture su tutto il corpo, dal politico e storico Giustino Fortunato, tra i più importanti esponenti del Meridionalismo.

Benedetto Croce raccontò cosa accadde nel suo “Contributo alla critica di me stesso” del 1915, dove parla anche dei pensieri di suicidio che gli vennero a causa delle gravi perdite a soli 17 anni:

“Eravamo a tavola per la cena io la mamma, mia sorella ed il babbo che si accingeva a prendere posto. Ad un tratto come alleggerito, vidi mio padre ondeggiare e subito in un baleno sprofondare nel pavimento stranamente apertosi, mia sorella schizzare in alto verso il tetto. Terrorizzato cercai con lo sguardo mia madre che raggiunsi sul balcone dove insieme precipitammo e così io svenni… Rinvenni a notte alta, e mi trovai sepolto fino al collo, e sul mio capo scintillavano le stelle, e vedevo intorno il terriccio giallo, e non riuscivo a raccapezzarmi su ciò ch’era accaduto, e mi pareva di sognare. Compresi dopo un poco, e restai calmo, come accade nelle grandi disgrazie. Chiamai al soccorso per me e per mio padre, di cui ascoltavo la voce poco lontano; malgrado ogni sforzo, non riuscii da me solo a districarmi. Verso la mattina (ma più tardi), fui cavato fuori, se ben ricordo, da due soldati e steso su una barella all’aperto. Lo stordimento della sventura domestica che mi aveva colpito, lo stato morboso del mio organismo che non pativa di alcuna malattia determinata e sembrava patir di tutte, la mancanza di chiarezza su me stesso e sulla via da percorrere, gl’incerti concetti sui fini e sul significato del vivere, e le altre congiunte ansie giovanili, mi toglievano ogni lietezza di speranza e m’inchinavano a considerarmi avvizzito prima di fiorire, vecchio prima che giovane... Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi: i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri di suicidio….”.