IL FESTIVAL DI SANREMO NEL TEMPO DELLA PROTESTA. DI VINCENZO ACUNTO

Sanremo, 74° Festival della Canzone Italiana  – Conferenza stampa Organizzazione Rai 1 – nella foto: Fiorello, Amadeus

La manifestazione sanremese consegna all’immaginario collettivo le particolarità caratteriali dell’italiano medio. Un evento che dovrebbe essere di svago, che si impegna ad offrire agli appassionati versi e melodie nuove, viene caricato di tanti significati che, alla fine, fa perdere anche il gusto di ascoltare le canzoni. Chi è seduto in sala o guarda la kermesse dalla televisione, sperando di potersi rilassare, viene investito da fatti di dolore, politici, di guerra, di razzismo, di sport. Come se di essi non fossimo stati adeguatamente informati già prima che si alzasse il sipario dell’Ariston. E così, le canzoni in gara (che in tante sono risultate incomprensibili per l’imboccamento del microfono da parte del cantante, oltre che per salti grammaticali e di pessima dizione napoletana) passano in second’ordine, anche rispetto al vestiario dei protagonisti che si ridicolizzano da soli sia nel rifiutare l’età che portano, che nella pervicacia di esporre la propria diversità di genere che penso non dovrebbe interessare nessuno. Annalisa mette in mostra i suoi reggicalze ad altezza inguine, i resti dei Ricchi e Poveri si addobbano con colori e paillettes che mortificano il loro curriculum canoro e Mahmood, che si mostra più ossessionato dall’idea di voler comunicare qualcosa di sé che i versi della canzone, che trovo ripetitiva di uno slang melodico nordafricano che non gradisco. Quando lo sento mi riporta sempre al film “Totò nella casba”. Per sentire qualche bella canzone bisogna attendere le cover con Vecchione, o la Cinquetti che dopo 60 anni fa rivivere agli italiani l’emozione della musica leggera dal palco di Sanremo. Quella seria e vera. Giudicata da professionisti competenti e non da tifosi accorsi allo stadio (reale o virtuale) a tifare durante un derby. Dulcis in fundo; alla fine del festival s’è lamentato pure l’ambasciatore Israeliano in Italia che ha protestato perché un cantante, mi sembra si chiami Ghali, ha detto “Stop al Genocidio”. Io non ho sentito indirizzi specifici, per cui appare opportuno ricordare ai lettori che il vocabolario della lingua italiana informa che il genocidio qualifica la “sistematica distruzione di una popolazione, una stirpe, una razza o una comunità religiosa” senza distinzione di appartenenze politiche. Per cui, cosa ha detto di strano il signor Ghali per aver detto “stop al genocidio? “Signor ambasciatore, se lei non conosce la lingua italiana, che forse è un po’ più articolata rispetto ad altre, faccia uno studio più accurato ma non sollevi polveroni inutili che in un momento come quello che si vive non è proprio il caso di stimolare. Se poi il suo scopo era quello di rendere pubblicità al cantante (la cui canzone a me non è piaciuta), usi altri metodi”.

Anche altri argomenti della kermesse hanno contribuito a farmi venire l’orticaria per essere fortemente stridenti con la realtà che ci circonda. L’Italia (e con essa l’Europa) è al centro di una protesta mastodontica quanto giusta e sempre alla ribalta con chi non riesce ad arrivare a fine.

Mentre milioni di contadini a bordo dei loro trattori protestano perché le tasse e i costi di produzione superano di gran lunga quanto riescono ad incassare -non a guadagnare- in un anno di attività, senza ferie o distrazioni e sapere che essi fanno pendant con fatti di cronaca che narrano di suicidi domestici per il fatto che non si riesce ad arrivare a fine mese (in dieci anni oltre mille), venire a conoscenza che al, pur bravo, presentatore vengono pagati 42.000,00 euro a serata e ai suoi co-conduttori 25.000,00 (sempre per serata) e poi agli ospiti cifre da capogiro che hanno superato i 200.000,00 euro (come a quel Travolta chiamato per scimmiottare il ballo del quà quà) fa venire il voltastomaco. A me sembra che si stia scherzando con il fuoco. Cari lettori, se si confrontano le dichiarazioni dei redditi degli italiani (incluse partite iva di vario genere), balzerà agli occhi che non solo l’80% degli agricoltori arriva a malapena a diecimila euro di reddito annuo ma che anche gran parte di ragionieri, geometri, medici o avvocati (lasciando perdere certi studi ove i titolari manco sanno ove è ubicato il tribunale o l’ospedale) a malapena giungono alla soglia dei trentacinquemila euro l’anno. Per cui apprendere di certe cifre per una serata, è difficile da deglutire. Molto difficile!! Credo che è giunto il momento che chi deve intervenire lo faccia subito, in modo diretto o indiretto, e si sbrighi a rimettere le cose in ordine. E, per rendere comprensibile l’argomento, cito il caso di un mio cugino contadino casertano che coltiva ciliegie (quelle belle grosse e saporite che troviamo al banco del mercato a non meno di 7 o 8 euro al kg). Dopo aver seguito e curato la pianta un anno intero (zappatura, potatura, e irrorazioni varie) deve provvedere alla raccolta – a mano, grappolo per grappolo, con collaboratori che gli costano oltre cento euro al giorno. Qualcuno riesce a immaginare quanti chili una persona normale, arrampicata su uno scaletto di legno, riesce a raccogliere in una giornata di lavoro? L’agricoltore, inserito nella “filiera del mercato”, a stento riesce ad ottenere un euro al chilo. Diversamente le deve far marcire sulle piante! C’è una proporzione o una logica in tutto ciò? Per me non c’è e i trattori in strada, oltre ad essere la logica conseguenza, impongono di intervenire subito per sanare certe follie che, inventate al grido di “tutela dei “lavoratori” proteggevano in effetti solo le lobbies affaristiche? acuntovi@libero.it

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