UN PASTICCIO DI NOME “GIUSTIZIA” AD UN BIVIO PERICOLOSO. DI VINCENZO ACUNTO

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Non c’è giorno che l’informazione non rilevi, in negativo, vicende giurisdizionali abbastanza singolari. Quella che ha tenuto banco nella settimana andata, su vicende di ingresso illegittimo di migranti sul territorio nazionale, ha stimolato un commento pungente del prof. Abbamonte che sulla prima pagina del “Roma” di lunedì 9 ha, tra l’altro, così scritto “Ci sono molti magistrati dall’animo bello, esibito in pensieri eletti, confortati dal distinto stipendio e da molte garanzie, dimentichi però che la giurisdizione non è libero pensiero”! Un’espressione che mi ha fatto fare un capitombolo all’indietro di oltre 40 anni quando, con tanta timidezza e radicato dal senso delle regole, mi approcciai alla (allora) nobile professione di avvocato che la nostra Costituzione annovera come elemento essenziale per lo sviluppo di ogni attività giurisdizionale. Sia penale che civile. Può ancora dirsi così? Dopo tanti anni di militanza non saprei dire con serenità. L’avvocato è stato ridotto, per sua colpa, ad un orpello necessario, quanto inutile, della funzione giurisdizionale; anche in considerazione del fatto che la legislazione italiana è sempre più pregna di regole e tutele delle funzioni magistratuali e mai della classe forense, che resta alla finestra a leccarsi le ferite che, mese dopo mese, si aprono nelle loro toghe. Il numero degli avvocati che lasciano la professione per dedicarsi ad altro è sconcertante. Per avere un’idea, riporto un dato statistico: nel 2010 erano stati 1373 ad abbandonare, nel 2022 sono stati 8698. Perché? Cerchiamo di capirlo, anche se l’argomento è noioso per chi legge e obbliga, chi scrive, a svicolare tra accese permalosità. Il sistema di informazione, che è diventato il motore dell’attività legislativa italiano (un tempo lo erano le relazioni dei presidenti dei tribunali e dell’avvocatura nei vari circondari), dal 1994 –era di tangentopoli che si caratterizzò per i tanti arresti eccellenti nel mondo politico e imprenditoriale- accende i suoi riflettori sul processo penale e mai su quello civile. Quando è ben noto che è il secondo ad incidere sui circuiti economici di un paese. Tanto è vero che il mal funzionamento della giustizia civile frena gli investimenti e gli investitori stranieri con pesanti ricadute sul PIL. A stimolare gli interventi, nel processo civile, provvedono spesso lobbies interessate con la conseguenza che, visti gli oneri e i risultati, il cittadino si allontana sempre più dalla giurisdizione. Per non tediare il lettore, con il riporto di numeri e tabelle, dico che, secondo i magistrati, il numero degli addetti è insufficiente per le vicende da trattare. È dal tempo del Mortati (con i Mortariti) e di Togliatti (con i Togliattini), che lo Stato, per sopperire alle carenze d’organico, fa ricorso ai giudici onorari (avvocati che rinunziando alla propria missione, per pochi spiccioli, vengono utilizzati come giudici) risparmiando su costi e prebende. Forse con migliori applicazioni manageriali alla direzione dei tribunali, si raggiungerebbero migliori risultati senza stimolare dubbi o incertezze. In tale quadro, gli esercenti la giurisdizione civilistica, hanno raggiunto il convincimento di dover, con pratiche processuali, scoraggiare il contenzioso. Invece di stimolare il legislatore a bandire i concorsi per aumentare il numero dei giudici, cercano di scoraggiare il cittadino dal ricorrere a loro per risolvere le problematiche della quotidianità. Senza chiedersi se qualcuno o più potrebbe, un giorno, ritenere più conveniente rivolgersi ad altri circuiti che, con minor tempo e costi, affronterebbero le vicende!! E per raggiungere lo scopo, a seguito dell’introduzione del cosiddetto processo telematico, utilizzando le “passatoie” che il sistema consente (specialmente ora che è ancora poco efficiente), il processo civile (che un tempo era il tempio del sapere del cultore del diritto) si è trasformato in un qualcosa che si avvicina più ad una burla che a quella sacralità, quasi mistica, che tanti anni fa selezionava le carriere sia degli avvocati che dei giudici nel periodo di tirocinio. Se all’informatica si aggiungono le distorsioni derivate dalla, esasperata, applicazione della normativa Covid, utilizzata con vantaggio unilaterale, il quadro diventa farsesco. Il processo telematico (del quale un grande Giudice civilista del Tribunale di Napoli sintetizzò “non era questo di cui aveva bisogna la giustizia italiana”) determina la formazione del fascicolo virtuale che resta depositato in un archivio informatico, nel quale, non esistendo blocchi, le parti possono depositare, in qualsiasi momento, quindi anche fuori termine, quel che ritengono utile. Tranne nei weekend, quando è prassi che il sistema si blocca “per rilassamenti da weekend” mandando in panico gli avvocati chiamati al rispetto dei termini che, per loro, scadono anche di sabato. In dipendenza di ciò, gli avvocati sono costretti ad una estenuante attività di controllo per evitare decadenze o che il fascicolo resti “inquinato” da carte che non si potrebbero più depositare e che lui nemmeno ha visto. Spesso per il maturare dell’ora vespertina del venerdì con il sabato e la domenica di seguito. Un tempo, l’arcigna figura del cancelliere custodiva il fascicolo cartaceo nel quale, scaduti i termini, nessuno poteva aggiungere altro. La marea di carte arriva nel PC del giudice che, considerato lo strumento, è costretto ad esaminare un foglio per volta, formato A4, non sempre leggibile in virtù delle deficienze derivanti dalle scannerizzazioni e trasmissione dati. È praticamente e umanamente impossibile, con la tecnica attuale, esaminare contemporaneamente tutte le carte di un processo (specialmente quando si tratta di diritti reali con più parti) per rispondere alle domande poste dai contendenti. Un tempo il giudice, introitata la causa in decisione, portava il fascicolo a casa. Aveva le carte aperte sulla sua scrivania per settimane, leggeva e rileggeva e, evidenziando i punti più salienti, comprendeva. Innanzitutto lo spirito che aveva animato l’attore a rivolgersi a lui, dando l’esatto “nomen iuris” alla vicenda, procedeva di poi all’esame dei documenti di sostegno che, restando in visione per giorni, li riannodava con le argomentazioni discusse, con gli avvocati, nelle tante udienze della causa. Oggi il processo telematico ha, pressoché, annullato il confronto e la discussione sulle diverse ragioni del contendere. Gli avvocati scrivono un foglio che depositano nel fascicolo e sui diversi scritti il giudice procede, nei tempi dettati dalla procedura (per loro mai perentori), spesso senza aver compreso di cosa si tratta. La normativa covid, come anticipato, ha posto un ulteriore freno alle attività degli avvocati. Le udienze civili (che per oltre 40 anni ho praticato in aule, aperte, affollate da giudici e avvocati) in presenza sono limitate all’osso. Quando è disposta essa è a porte chiuse tra il giudice e le parti che, in piena tranquillità (manca solo il tè), occupano il tempo che ritengono mentre gli interessati ad altre cause attendono all’esterno, in un corridoio, senza aver nemmeno la possibilità di sedersi o di leggere qualche carta. Sarebbe una bella cosa se fossero al massimo tre o quattro le cause da trattare e non una trentina o più, per giudice, come nei fatti è oggi. Spesso i testi convocati per una certa ora (che è fittizia) vanno via e il processo deve essere rinviato. Con buona pace della prova e, spesso, degli esiti del processo, considerato che il giudice è con l’occhio vispo a chiedere se il teste (allontanatosi per sfinimento) sia stato citato o meno. E, al momento del decidere, viste le tante carte lievitate senza controlli, come prima cosa va a verificare la regolarità e tempestività delle stesse. In sostanza si va a cercare un appiglio per chiudere subito la pratica con il rigetto della domanda, correndo, in mancanza il rischio di “cecarsi” a leggere, in un piccolo monitor, milioni di fogli. E, considerato che, nell’ordine delle cose, sono lette prima le carte dell’attore e poi quelle del convenuto, succede che, a essere i più esposti alle stroncature giurisdizionali sono quelli che si sono rivolti alla Giustizia e non ad altri per le violazioni del convenuto che opera di rimessa e senza anticipare costi. In tal contesto talune decisioni (risentendo spesso dell’impossibilità di esaminare “documento per documento” come, invece, con il cartaceo avveniva) si concludono col rigetto ed il corollario delle spese aggiuntive. Quasi a voler dire “non ci provare più..!”. Definendo quel percorso deflattivo detto in precedenza. Nel tracciato appena descritto il tribunale di Ischia si è ritagliato uno spazio particolare di cui diremo in un prossimo intervento. Di esso sono noti gli umori della magistratura che propende per la chiusura, in aperta controtendenza con la volontà del legislatore di tenerlo aperto nell’interesse dei cittadini dell’isola che da oltre tre secoli ne usufruiscono. Dando così spessore a quanto ha scritto il prof. Abbamonte nell’intervento richiamato “la nostra magistratura non ha, nella sua gran parte, alcuna formazione politica seriamente responsabile e conseguentemente, non è in grado di apprezzare le conseguenze politiche delle proprie decisioni”. acuntovi@libero.it