IN RICORDO DELL’AMICO VINCENZO DI MEGLIO. DI ANTIMO PUCA

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Dedicato all’amico Vincenzo Di Meglio, con cui ho condiviso la mensa del sapere, il pane della cultura.

Gli antichi greci avevano due termini per indicare la guerra o meglio due tipi di guerra. Uno indicava la guerra, per così dire, limitata già nei disegni iniziali, quella che si propone non di distruggere l’avversario ma di indebolirlo, di contenerlo, strappandogli un buon bottino e limitando le sue possibilità. Quando Francia e Germania si scontrarono nel 1870 nessuna delle due pensò, in caso di vittoria, di distruggere Berlino o Parigi, ma solo di rendere l’avversario meno temibile e di portargli via qualcosa. L’altro tipo di guerra è quello che prevede e persegue, quale obiettivo inevitabile, la distruzione dell’avversario: Roma che sparge il sale sulle rovine di Cartagine mai più risorta,la Germania rasa letteralmente al suolo alla fine della Seconda Guerra mondiale. Contro la malavita organizzata lo Stato non persegue,( forse non può o forse non vuole) , una guerra di annientamento,bensì di contenimento, che non esclude trattative, patteggiamenti, compromessi. La malavita organizzata è un cancro. E un cancro non può essere contenuto, arginato, ridotto in certi limiti. Può essere solo estirpato, amputato e poi gettato nelle immondizie. Ma forse è materialmente possibile amputarlo. Forse perché si è già infiltrato in alcuni organi vitali dello Stato. Forse perché la guerra di annientamento è difficilmente compatibile con la normale vita burocratica. Forse per impossibilità oggettiva. O per altre ragioni. Non perdiamo troppo tempo a parlare degli assassini, secondaria manovalanza dei massacri. Quando il corpo sociale si ammala o viene aggredito e guastato, quando sono in gioco i valori in cui crediamo, allora diventano necessarie la presa di posizione, la protesta, la analisi, la satira.A chi dice, stoltamente o truffaldinamente, che per capire la mafia bisogna essere siciliani, Sciascia risponde, nel Giorno della civetta, col suo capitano Bellodi che-proprio perché viene da lontano, da Parma, e ha militato nella Resistenza e non nel Movimento autonomista siciliano-capisce la mafia meglio di chi le vive accanto, dei mafiosi stessi e talora, come accade nei buoni libri, dello stesso scrittore. Indebolire la legge, in nome dello spontaneo processo della vita che in tutti gli ambiti – individuale, politico, economico, sociale-procederebbe per il meglio significa solo lasciare i deboli alla mercé dei forti, spianare la strada alla violenza e all’ingiustizia, abbandonare la realtà all’arbitro del più potente. Voler sottrarre, come spesso tende a fare pericolosamente e talora sfacciatamente il nostro Governo- al controllo della legge ambiti e azioni da cui può dipendere l’esistenza delle persone. La crescente complessità è la scala sempre più vasta dei fenomeni e delle relazioni politico sociali economiche rende ancor più necessario il controllo del diritto e uno Stato che renda efficace tale controllo a difesa dei deboli, a tutela dell’ambiente, a protezione della vita di tutti. Modello può essere  l’impero romano, con la sua legge. Non il far West dei pistoleros, caro agli ultras anarchici del liberismo selvaggio. Abbiamo e avremo sempre più bisogno di certezza del Diritto. Un sofisma è quello, continuamente ripetuto, secondo cui la legge dovrebbe adeguarsi al sentire comune e conformarsi all’evoluzione della realtà (termine assai vago, perché non si capisce cosa sia questa realtà cui ci si dovrebbe conformare come se si fosse fuori di essa, mentre invece la realtà è il risultato del continuo confronto in cui ognuno, concorrendo così a formarla, afferma i propri valori). Secondo quel sofisma, bisognerebbe punire di meno o non punire più un reato quando esso viene praticato su larga scala. In base a questo principio, durante la Repubblica di Weimar i giudici simpatizzanti col nazismo cercavano di non applicare le norme che punivano le violenze antisemite, sostenendo che esse non corrispondevano più al sentire comune dei tedeschi. Quando più un reato si diffonde, tanto più occorre perseguirlo, se si pensa che vìoli i diritti dei cittadini. Quanto più la criminalità aumenta, tanto più occorre reprimerla, per tutelare i cittadini. E ciò vale per il furto, la corruzione, la concussione, la rapina, la violenza ad ogni specie, compresa quella bestiale commessa in nome del calcio, l’abuso di potere da parte di organi dello Stato,l’istigazione all’odio. Quando il terrorismo si è maggiormente diffuso e sembrava accettato più del consueto, negli anni Settanta, è stato giusto intensificare la sua repressione, così come è stato necessario reprimere la corruzione quando essa, stava diventando un costume quasi abituale. Un crimine è tanto più nocivo, e va tanto più perseguito, quando più si diffonde. Mille rapine non possono indurre a tollerarle come abitudine. Sappiamo bene come i cavilli giuridici possono favorire la peggiore ingiustizia.
Talora è difficile pensare che il posto più consono ad assassini, sicari e mandanti egualmente immondi, non sia la forca o altra analoga soluzione acconcia. Ci sono macchie incancellabili che sfigurano la faccia del mondo e certe morti gridano vendetta più del sangue di Abele.
di Antimo Puca