LA ESIBIZIONE DEL DOLORE. DI ARCANGELO MONACILIUNI

Non è semplice digitare a lungo sulla tastiera di un cellulare, tanto meno se utilizzi un solo dito di una sola mano. Certo, avrei potuto portare con me, qui sull’isola di Arturo, un portatile, ma l’effetto sarebbe
stato quello di dover poi affrontare le aule giudiziarie, ivi convenuto da un’istanza
di divorzio. E davvero non è il caso.
Questo a dire che non potrò compiutamente approfondire nei suoi molteplici risvolti il tema -per vero non molto da vacanza, ma gli eventi che inducono a riflettere accadono anche quando si è in vacanza- che mi è balzato prepotente alla mente in questi giorni che han visto il Romano Pontefice sottoposto all’intervento chirurgico, descrittoci con ampiezza di particolari, di “stenosi diverticolare del sigma.
Oggi che, deo gratias, i bollettini assicurano il suo completo recupero post operatorio posso affrontare il tema del dolore e della sua esibizione: non quello dell’uomo comune, non quello dei potenti della terra, ma quello del Vicario di Cristo in terra.
La lenta agonia di Papa Wojtyla in diretta, minuto per minuto, è impressa indelebilmente nella mia mente. Ed oggi come ieri mi chiedo se davvero necessiti che la sfera intima del Capo della Cristianità sia violata in nome di principi che forse son propri dei tempi che viviamo, ma che non per questo meritano plauso incondizionato.
Non è dubbio che il mondo digitale stia cambiando radicalmente i valori,
l’intimità, e quindi anche il modo di affrontare la sofferenza propria o altrui.
La spettacolarizzazione del dolore, che sia dovuta
ad una morte, ad una malattia o ad un qualsiasi evento drammatico,
sembra quasi una necessità della quale oggi non si possa fare a meno. Il dolore composto, proprio delle donne lombarde, quello altrettanto composto delle donne sicule che coprono il capo con uno scialle nero con una gestualitá carica di significato, non ammette(va) condivisioni di sorta.
Oggi sembra invece di trovarsi di fronte ad intrattenimenti, talvolta da avanspettacolo.
Per vero, a questa vis compulsiva all’esibizione della sofferenza tentano di sottrarsi i potenti della terra.
Se pur impossibile, nei tempi che viviamo, che ne vengano celate le condizioni fisiche (chi non ricorda il leggendario “raffreddore” di Andropov, la notizia della morte di Breznev data con molti giorni di ritardo) si tende sempre a nascondere, sopire.
Le ragioni son quelle sempiterne legate al Potere, il
voler/dover dare l’immagine del leader sempre in perfetta forma e, pur se oggi ipotesi recessiva, consentire nell’ombra le trame per la successione. Erano ragioni valide ieri e son ragioni valide oggi, con le differenze del caso, scevre da ipocrisie.
Ma io credo che nella “sacralizzazione” del leader maximo di turno vi sia anche la necessità di dare un simbolo alle svolte della storia, alle rivoluzioni, al loro consolidarsi.
Seguire (fra i tanti possibili esempi) Lenin, ma seguire anche Stalin che salva la Rodina dal nazismo, inneggiare a loro (o ai tanti altri), è più semplice e più appagante che declinare principi, ovvero permette che i principi si materializzino in una persona fisica. L’incarnazione dei principi nel princeps direi costituisca, in certo modo, “legge di natura”.
Intuisco le possibili obiezioni, ma non vi è qui spazio per replicare in anticipo, avuto anche conto della “lateralità” dell’argumentum rispetto al nucleo centrale del discorso.
E dunque, venendo al Vicario di Cristo in terra, non potrebbe convenirsi con il dato che la “sacralizzazione” avrebbe molte maggiori ragioni d’essere se riferita a Lui?
Tempo fa, con lo scritto “Frigido pacatoque animo”, ho dato conto delle mie riflessioni in ordine alla reazione, che mi aveva colpito, del Pontefice romano allo strattonamento subito in piazza S. Pietro ad opera di una fedele.
Avevo previsto il dissenso, imperniato sull’essenza umana del Papa e sull”assunto che la sua vulnerabilità quale essere umano lo collocava più vicino all’uomo e per questo maggiormente capace di dare e ricevere amore.
Si, vi era, vi è, del vero in questo. Ma ancora vero è che Gesù-Yeshua, l’uomo che trasuda amore, è cosa diversa dal Cristo, l’unto con il sacro Crisma, e ancora vero è che l’identità cristiana si basa sul Cristo e non su Gesù, ovvero si fonda su Gesù solo in quanto riconosciuto come il Cristo.
Ben so che, dissociandosi dal pensiero dell’allora cardinale Ratzinger, Hans Kung ieri e Vito Mancuso ed altri oggi hanno offerta una visione “umana” della religio, del Vicario di Cristo in terra, una visione che definirei
“dinamica” in linea con i tempi.
Nondimeno, pur avendoli attentamente letti, pur ben conoscendo la teoria della Liberazione, io reputo più convincente la visione statico/dinamica dell’attuale Papa emerito, quale enunciata, in particolare, nell”enciclica: “Deus Caritas est”/Dio è amore.
Secondo la Lettura, Pietro è l’intermediario, il ponte fra l’uomo e il Dio, o
il Cristo, che è Dio. Egli solo può accedere al cielo e quindi legare, sciogliere,
consentire all’uomo di sperare, di non disperare, di dare un senso ultraterreno
alla propria vita, di liberarlo dalle paure, come solo può fare chi possiede le
chiavi dei cieli. E del resto, Carlo Marx ha sì scolpito nella storia che “La religione è l”oppio dei popoli”, ma la sua frase completa è questa: “La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così
come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo ”.
Privato della credenza, della fede, non più legato ad essa (non ho bisogno di rammentare che religio nasce da lego), ricondotto Pietro alla sua umanità, al suo essere uomo fra gli uomini, il credente vien privato della speranza ultima, quella che trascende la sfera umana, l’immanente, per poter trarre linfa solo dal trascendente, dalla fede. Il Papa, uomo fra gli uomini, sarà certamente più vicino al suo prossimo, ma io credo con una perdita/attenuazione della dimensione spirituale che per chi ha fede, quando la ragione teme di vacillare sotto ripetuti colpi di maglio della vita, sola può dare conforto e, infine, posarsi “sulla deserta coltrice”.
E, certo, riannodando le fila, se parliamo del successore di Gesù, mostrarne la sua sofferenza umana, ci sta, può starci, ma se parliamo del Cristo non credo ci stia.
Sul Golgota Gesù è morto e ad esser risorto è il Cristo.
E se il corpo dei regnanti, non appena unti, non apparteneva più a loro, ma allo Stato, il corpo di Pietro e dei suoi successori non potrá mai essere avulso dalla sua essenza che racchiude una corporeità non solo fisica in senso stretto, affidata alla cura corporis da parte degli archiatri pontifici, ma più ampia in quanto indissolubilmente legata alla natura della funzione pontificia. Quella natura, quella funzione, che, ove si voglia preservarla, io credo imponga che non venga mostrato, disvelato, fin nelle sue intimità, nelle sue sofferenze, l’uomo, che pure è.
È, questo, senza alcuna pretesa di possedere il Verbo, il mio pensiero, il pensiero di un uomo di ragione e non di fede, e però consapevole, citando Bobbio, “di essere avvolto in un mistero che la ragione non riesce a penetrare sino in fondo…”.

di Arcangelo Monaciliuni

Costituzionalista

già Magistrato T.A.R. Campania

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