Sono le religioni e i loro simboli a governare il mondo e possono guidarlo verso il bene o verso il male a seconda che siano veri o falsi buoni o cattivi, luminosi o orrendi. Non c’è più identità perché non c’è più religione. Non c’è più un destino perché non c’è più una fede. Non c’è più un popolo perché non c’è più una Chiesa. Siamo in grado di ingurgitare, digerire ed espellere qualsiasi fremito identitario in nome di una carità ridotta a cedimento, di una virtù ridotta a vizio, di un credo ridotto a dialogo. La fede è empia illusione originata dalla mente e dal cuore così deboli da aver abolito la messa per il manifesto terrore di comprenderla e affrontarla. La fede è bandita perché chi non crede non può essere padrone a casa propria e può solo soccombere davanti a chi una fede ce l’ha. Proprio il gesto di vietare la messa non viene compreso in un luogo dove non c’è più fede. Esso raggiunge le corde di anime ormai non più abituate a vibrare davanti al senso del Divino e cade in una indifferenza che nulla ha di santo e poi viene rivestito da una paura del corona virus banalmente mondana che i latori del messaggio possono solo disprezzare come consenso alla resa incondizionata. Suona duro ad alcuni cuoricini, ma ad un atto religioso ci si difende solo ponendo un atto religioso. Alla fede si risponde con la fede. Il simbolo si affronta con il simbolo. Quando San Francesco si trovò al cospetto col sultano, non si diede al dialogo e all’ascolto. Nella Leggenda maggiore San Bonaventura narra che il santo invitò il sovrano islamico ad accendere un gran fuoco e poi lo sfidò:”io, con i tuoi sacerdoti, entrerò nel fuoco e così, almeno, potrai conoscere quale fede, a ragion veduta, si deve tenere più certa e più santa”. E, davanti al diniego del re, San Francesco incalzò:”entrerò nel fuoco da solo. Se verrò bruciato, ciò venga imputato ai miei peccati. Se invece la potenza divina mi farà uscire sano e salvo, riconoscerete Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio, come il vero Dio e Signore, Salvatore di tutti”. Nei suoi “Ricordi”, frate illuminato chiosa che “Tutti gli astanti rimasero ammirati per le risposte di lui”. Altre fonti parlano della conversione del re musulmano che, per la prima volta, aveva percepito una pace nuova poiché aveva sentito parlare di una guerra nuova, l’una e l’altra estranee e antitetiche a quelle del mondo. “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo io la do a voi”, dice Gesù ai suoi discepoli. In queste salvifiche parole si finisce per isolare il semplice termine “pace” evaporando il senso di un discorso così eloquente da essere persino didascalico: dal seguace di Cristo si esige la costante lotta contro il mondo, poiché non vi è pace senza guerra. Ma questa è un’evidenza dalla quale si preferisce ritirarsi accontentandosi dell’illusoria tregua offerta dal mondo, imitazione scimmiesca di quella lasciata dal Salvatore. Il dovere di difendere la propria fede non può essere abbracciato da un agglomerato di individui dall’ego bulimico e tremebondo a cui non interessa contraddire il divieto alla celebrazione della liturgia,il no alla Eucarestia. L’occidente in rovina trova più fascinosa la tentazione di un cristianesimo senza Cristo, di una fede senza cielo, di una morale senza doveri, di una religione senza ascesi ed è ammaliato dall’anticristo che gli sussurra dolcemente:”il Cristo ha portato la spada, io porterò la pace”. Ma questa non è più la terra dei popoli, ormai decostruiti da chi ha maneggiato perversamente i concetti di “popolo di Dio”, e di “popolo lavoratore” fino a sfarinarli in tanti atomi buoni per il mercato morale ed economico del liberismo trionfante. È un deserto abitato da esseri atterriti dal fatto che qualsiasi azione debba avere un movente e quindi sia morale e sottoposta a giudizio. Povero nido di larve prive di nerbo spirituale che hanno ripudiato l’atto religioso per eccellenza, la messa, l’adorazione che si manifesta nel rito e nel simbolo, e rimangono inebetite al cospetto del corona virus. La società civile è completamente disorientata. In ogni cado, nulla dispone a comprendere e a reagire, che non significa necessariamente fare la guerra, ma affermare solidamente la propria identità. Buio profondo nelle chiese in cui il sacrificio di Cristo è stato oscurato dalla paura del corona virus. Un tempo la Chiesa non aveva di queste amnesie e di questi timori. Sapeva di avere un tesoro da custodire e l’atto di religione più grande,la Messa, iniziava nella sacrestia quando il sacerdote indossava come primo indumento l’amitto, simbolo del l’elmo, come difesa contro il demonio:”Impone Domini, capiti meo galeam salutis, ad expugnando diabolicos in cursus”. E poi, prima di salire all’altare che avrebbe letificato la sua giovinezza, il celebrante invocava il Padre perché mandasse il suo Angelo”qui custodiat, faveat, protegat, visite atque defendat omnes habitantes in hoc habitaculo”, perché custodisse, sostenesse, proteggesse, visitasse e difendesse tutti gli abitanti di quella navicella di combattenti che si apprestava a guidare in battaglia contro il principe di questo mondo. Ma ora persino il tre volte “Sanctus Dominus Deus Sabaoth”, da tre volte Santo Signore Dio degli eserciti è divenuto un più pacifico Signore Dio dell’universo, e quasi nessuno, a quella lode, si inginocchia più. Ma una Chiesa che non è capace di fare inchinare umilmente i propri fedeli davanti a Dio non può pretendere di farli alzare orgogliosamente davanti agli uomini. Scriveva G. K. Chesterton in un saggio su Dickens:” non c’è sintomo peggiore di quello che vede l’uomo, fosse pure Nietzsche, affermare che dovremmo andare a combattere invece che amare. Non c’è sintomo peggiore di quello che vede l’uomo, fosse pure Tolstoj, affermare che dovremmo amare invece di andare a combattere. Una cosa implica l’altra. Una cosa implicava l’altra nel vecchio romanzo e nella vecchia religione, che erano le due cose permanenti dell’umanità. Non si può amare qualcosa senza voler combattere per essa. Non si può combattere senza qualcosa per cui farlo. Amare qualcosa senza desiderare di combattere per averla non è amore, ma lussuria”.Una voce della Chiesa profetica è considerata ormai quella di don Lorenzo Milani, morto nel 1967. Don Milani con la Scuola di Barbania ha insegnato tante cose, oltre al valore del l’obiezione di coscienza. Tra l’altro ha insegnato che non bisogna essere timidi nei rapporti coi Vescovi e coi Cardinali. Scrivendo questa Lettera aperta all’arcivescovo di Pisa per contestare la cosiddetta “Giornata della solidarietà”, è il caso di ricordare le lettere di Don Milani al cardinale di Firenze. E la lettera a Nicola Pistelli, “Un muro di foglio e di incenso” (1959),non nota quanto la Lettera ai cappellani militari e la Lettera ai giudici. “Criticheremo i nostri vescovi perché vogliamo loro bene. Vogliamo il loro bene cioè che diventino migliori, più informati, più seri, più umili. Nessun vescovo può vantarsi di non aver nulla da imparare. Ne ha bisogno come tutti noi”. (Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbania, Milano, Mondafori, 1970,p.125). Per concludere potrebbero valere oggi le parole di Benedetto Croce, anche per i cattolici, pronunciate al Senato il 24 maggio 1929,parole che commossero “fino alle lacrime credenti e non credenti, cattolici e non cattolici” (Salvatore Valitutti) :”Come che sia, accanto o di fronte a uomini che stimano ‘Parigi valere ben una messa’, sono altri per i quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi perché affare di Coscienza. Guai alla società, alla storia umana, se uomini che così diversamente sentono le fossero mancati o le mancassero”(dalla rivista “Nozze”, gennaio/febbraio 1984,anno settimo, n. 1,p.72).
Un popolo lussurioso può solo decadere in “società civile”e soccombere. Oltre la linea rimangono piccoli focolai di fede. Non lasciamoli spegnere.
di Antimo Puca