La cronaca degli ultimi giorni, con i suoi resoconti agghiaccianti, ci offre un quadro terrificante di quella che è la condizione dei ragazzi di oggi. L’ultimo episodio, in ordine di tempo, è quello della ragazzina di 13 anni
-ft.1-
buttata giù dal balcone dal fidanzatino di 15, con il quale trovandosi sola in casa aveva litigato. La descrizione del crimine rileva l’efferatezza comportamentale alla quale sembra non ci sia modo di porvi rimedio. La mia cara mamma, fino a quando è passata a miglior vita, era solita ripetere un antico refrain: “Mazz ‘e panell fann ‘e figl bell; panell senza mazza fanno e figl pazz”. Io, come le mie sorelle, fino ai 12-13 anni, abbiamo provato direttamente l’applicazione del principio, ricevendo tanti no e più di qualche sculacciata per farci deflettere dai nostri desideri capricciosi). Per sfotterla le dicevo “mamma, se quando ero piccolo ci fosse stato il telefono azzurro, saresti ancora in carcere”. Lei, con fare sprezzante, rispondeva “sono orgogliosa di quello che ho fatto”; aggiungendo: “ho cresciuto tre figli dei quali nessuno mi ha mai potuto dire nulla”. Giusto per andare alla ricerca del momento in cui la nostra società si è rotta, generando tanti mostri, ricordo che ho vissuto la mia infanzia in un paese piccolissimo (ci vivo tuttora), ove, come oggi, tutti sapevano le cose di tutti, e ove, alla fine degli anni 50 inizi 60, non c’era ancora l’energia elettrica, l’acquedotto, i servizi o la carta igienica per pulirsi dopo le funzioni. La stazione dei carabinieri più vicina era a 8 chilometri (un percorso lunghissimo se si considera che l’unico mezzo di locomozione era il bus che faceva poche corse al giorno). Le strade di notte erano prive di illuminazione pubblica e si illuminavano solo col chiarore del giorno; le coppie sposate generavano non meno di tre figli e ragazzi e ragazze crescevano in piena normalità. E, pur esistendo, tra i miei coetanei, qualche testa più accelerata delle altre, mai che si sentisse di episodi di violenza o di prepotenza fisica di un maschio nei confronti della femmina. Pur se in talune famiglie si registrava qualche episodio di violenza del marito verso la moglie (in genere per problemi di alcolismo), mai sfociati in episodi delittuosi. Ne ricordo solo due che segnavano anche la vita dei figli con i quali ci si giocava con difficoltà, temendo le reazioni del padre violento. I figli quindi diventavano freno a mano di certe pratiche che, nella mia S. Angelo degli anni 60, aprendosi al turismo scomparvero del tutto. Questa piccola digressione, pescata nell’archivio della memoria, serve per affrontare le vicende drammatiche che la cronaca stata catapultano nelle nostre case, di ragazzi che uccidono con una freddezza impressionante e allo stesso tempo stravolgente (“desideravo verificare che sensazione si prova ad uccidere qualcuno”). Ho già affrontato l’argomento in questa rubrica, in relazione ad episodi sconcertanti che pur avevano coinvolto ragazzi. Come oramai spesso succede in Italia, ogni episodio criminale diventa argomento di spettacolo televisivo, ove i vari esperti vogliono mettere in mostra il loro sapere, senza però offrire idee per comprendere quando e dove la famiglia italiana si è frantumata e quali potrebbero essere le possibili soluzioni. L’unico che, secondo me, ha detto una verità, difficilmente scalfibile, è stato lo psichiatra Paolo Crepet che ha detto “i comportamenti violenti dei ragazzi di oggi sono il risultato dei tanti no mai detti dai genitori”. In questa frase io ho rivisto lo slang della mia mamma che con tutte le difficoltà del tempo: di reddito, di ambiente, di condizione (anni 40 e 50) ha saputo, con i suoi no e le sue sculacciate, anche pesanti, educare e mandare a scuola tre figli dei quali Ella diceva “sono orgogliosa di quello che ho fatto”. In precedenza ho detto “quando la famiglia italiana s’è frantumata?”. A mio parere (che sicuramente conta ben poco nel panorama degli intellettuali che si propongono a discutere dei vari casi), la famiglia italiana s’è frantumata a seguito degli eventi successi dopo la morte di quel grande Papa che fu Paolo VI. I papabili alla sua successione erano il cardinale di Firenze Giovanni Benelli
(foto 3 e 3a)
e quello di Genova (area geografica già avviluppata da una cultura progressista di particolare intensità) Giuseppe Siri
(foto 2).
Nel conclave venne fuori una “disputa programmatica” sul comportamento della chiesa in ordine al fenomeno che si incominciava ad affacciare in Italia, dell’immigrazione clandestina di soggetti professanti religioni diverse (ove erano consentite più mogli), rispetto a quella cattolica che fondava il suo credo sul valore e sulla composizione della famiglia. Valore della famiglia che, su spinta di grandi papi che avevano preceduto Paolo VI, la politica italiana dagli inizi del 900 aveva recepito nel corpo delle leggi dello Stato ove il fulcro della legislazione civile gira, inequivocabilmente, attorno alla istituzione familiare. Per il cardinale Benelli la chiesa avrebbe dovuto, nell’esercizio del suo magistero, continuare ad affiancare la classe dirigente italiana per arginare il fenomeno (immigrazione) che era agli albori, mentre il cardinale Siri sosteneva il principio della “libera chiesa in libero stato”. Si formarono due frange ideologiche e Benelli, che era il più accreditato al soglio, perse le chances. Fu eletto il mite Albino Luciani che appena trenta giorni dopo fu stroncato da un infarto aprendo la strada (dopo oltre 400 anni) ad un papa non italiano. L’ultimo era stato Adriano VI (olandese) eletto il 9/1/1522 e morto il 14/9/1523. Del Papa polacco (fatto anche santo) sarà la storia, tra qualche secolo, a dirci qualcosa del suo pontificato. Che abbia contribuito, in modo determinante, alla caduta dell’impero sovietico è ineludibile e gli va dato merito. Il dato di fatto, però, è che, dopo 25 anni di pontificato, la chiesa cattolica romana si è trovata invischiata in tante condizioni, poco edificanti, che costrinsero il suo successore, quel gran teologo che era Josef Ratzinger, a rinunziare al papato in quanto “avvertiva della necessità, per la chiesa, di avere un timoniere più giovane per arginare le derive che la coinvolgevano in uno con la società che aveva intorno”. Non possiamo non rilevare che durante il papato di Woytila le parrocchie hanno assunto una dimensione diversa. La figura del prete che organizzava gli oratori (che erano importanti fucine formative) o che, nei piccoli paesi riuniva i ragazzi attorno a progetti coinvolgenti, è diventata qualcosa di diverso e molto spesso insidiosa per la sorte dei ragazzi stessi. Visto che i filtri, un tempo esistenti per l’accesso al sacerdozio, erano stati eliminati con la scusa delle crisi vocazionali. Palle!! La crisi delle vocazioni trovava linfa in tante vicende poco edificanti che succedevano e per le quali l’attuale papa sta andando a chiedere perdono un po’ ovunque! A tanto bisogna aggiungere alcuni interventi legislativi che hanno modificato i paradigmi interpretativi: della funzione genitoriale; del ruolo del maestro di infanzia; del sistema di valutazione del merito o dell’interpretazione di certe norme poste a tutela della famiglia. Tutte indirizzate nel percorso di sottrarre la possibilità al genitore, all’insegnante o all’educatore in genere di dire quei no ai ragazzi di cui oggi finalmente parla il prof. Crepet. Qualche mese fa, in una rivisitazione storica del pensiero e dell’opera del “politico” Giovanni Gentile
-foto 4-
ministro del governo fascista che nel 1923 organizzò la scuola in Italia, è stato finalmente scritto “La riforma Gentile fu una salvezza. Creò una vera classe dirigente che guidò i successi del paese nel dopoguerra”. Bene, la mia generazione ha iniziato il proprio percorso scolastico in piena vigenza della riforma Gentile e l’ha conclusa tra le modifiche raffazzonate del dopo. Potrei ricordare tanti momenti sia del primo periodo, quando la maestra ci sgridava e ci metteva in “castigo dietro la lavagna” se andavamo a scuola senza aver fatto i compiti o sporchi nell’igiene personale; che del secondo quando all’università i docenti avevano paura di andare a fare lezione in quanto i cosiddetti “collettivi studenteschi” -appartenenti tutti ad una ben definita ideologia politica – pretendevano il “18 politico” o altre amenità del genere. Ricordo sul punto un episodio che successe durante il mio esame di “diritto del lavoro” (1975-mese di luglio). Il prof. si chiamava Ghera (che secondo qualcuno manifestava simpatie di destra). Avevo quasi concluso la prova quando, udendo un rumoreggiare alle mie spalle, vidi il professore sbiancare in volto (come se si stesse sentendo male). Prese il mio libretto, annotò il voto (26) e restò in piedi, impietrito. Mi girai e vidi che erano stati stesi striscioni con la richiesta del 18 politico, accompagnato da frasi ingiuriose “Ghera carogna ritorna nelle fogne” “università libera dai fascisti”. Io raccattai le mie carte e scappai verso il beverello ove riuscii a prendere un battello in partenza per Ischia (il Salvatore Lauro) sul quale mi imbarcai anche senza fare il biglietto. Nella mia vita professionale ho avuto modo di leggere decisioni che hanno condannato insegnanti per non aver prevenuto l’evento di un bambino che, nel suo agire agitato, aveva procurato danni ad un altro nel corso delle lezioni o di insegnanti arrestati per violenze sessuali sui minori (chi non ricorda il caso della scuola materna di Rignano Flaminio nel Lazio ove vennero arrestati ed esposti al pubblico ludibrio insegnanti che, molti anni dopo, furono assolti per non aver commesso il fatto). Ho letto di interventi devastanti nella famiglia con arresti di genitori o nonni per molestie sessuali sui figli o nipoti che poi risultavano (a danno fatto) non vere. Chi non ricorda, nel 1990, il caso del prof. Schillaci
(foto 5)
arrestato, con tanto di diretta televisiva, accusato di aver molestato sessualmente la sua bambina “Miriam” (di pochi mesi di vita nata quando i genitori erano quasi anziani) che lui e la moglie avevano portato in ospedale perché preoccupati da una persistente febbre e dall’arrossamento delle parti intime. Un tumore (che poi portò alla morte la piccola Miriam) fu scambiato dai sanitari per violenza sessuale ed il professor Schillaci, fino a quel momento persona irreprensibile e buona, sbattuto in galera sotto i riflettori della televisione di stato. Per dare contenuto all’allarme del prof. Crepet “ai nostri ragazzi mancano purtroppo tanti no dei genitori”, ricordo ai lettori qualcuna delle tante espressioni, vuote, dei soliti esperti televisivi, che hanno segnato i percorsi demolitori sia della famiglia che della scuola “ai bambini non bisogna mai impedire di sviluppare la propria autonomia e autoregolamentazione” – “Il barattolo della calma offre al tuo piccolo una soluzione per gestire lo stress”. Espressioni che hanno disorientato i genitori che sono stati spinti a ritenere che solo dando ai figli sempre di più, avrebbero adempiuto la loro missione. E così “il telefonino appena parla”, “il calcetto o la danza appena cammina”, “la play station”; etc, etc, etc. in un contesto familiare condito, sempre più, da litigi, da distacchi o da privazioni. Riempite da programmi televisivi, spesso violenti o per dementi. E ci si meraviglia se i giovani di oggi sono fragili e violenti? Io no. Mi faccio riparo dietro la consapevolezza di aver, con la complicità di mia moglie, seguito il principio di mia madre (di cui al titolo) educando due figli secondo i principi di un tempo, per consegnare alla società due elementi validi che hanno acquisito prestigio conservando alla base del proprio essere, il rispetto: delle regole, del prossimo, dei genitori, dello studio e del sacrificio. E, come diceva la mia mamma, “ne sono orgoglioso!” (acuntovi@libero.it)