“Si vis pacem, para bellum”
Tommaso d’Aquino si chiedeva se è sempre un peccato fare la guerra (utrum bellare semper sit peccatum, cfr. Summa theologiae, II-II, q. 40).
E rispondeva di no a tre condizioni: legittimità dell’autorità che la conduce, giusta causa, giusta finalità.
La guerra viene ripudiata in molte costituzioni dei Paesi civili. Basta questo a farla sparire? La stessa parola «guerra» viene pronunciata a fatica, come una brutta parola. Anche se si spara, si bombarda, si uccide, si distrugge, si muore, si preferisce parlare di operazioni di polizia internazionale.

(Antimo Puca)
La pudica reticenza delle parole non impedisce di gettare bombe, ma inibisce talora di comportarsi, se si è di fatto in guerra, come ci si comporta quando si è in guerra. La riluttanza a sparare è una grande virtù.
Ma se si mandano a difendere popolazioni minacciate, non suore di carità bensì soldati, ciò implica che se, per difendere una popolazione o un gruppo inerme dal massacro, è necessario sparare, bisogna purtroppo sparare e non comportarsi come quelle truppe dell’Onu nell’ex Jugoslavia mandate a impedire massacri e invece talora rimaste spettatrici passive del massacro, col proiettile mai uscito dalla canna a differenza dei proiettili che uscivano dalle bocche da fuoco dei massacratori.
La conduzione della guerra sta diventando una specie di consultazione assembleare, che non diminuisce il sangue versato nel mondo ma rende assai meno efficaci le misure per impedire che si continui a versarlo.
Le opzioni di guerra non devono essere escluse a priori e che talora purtroppo è necessario ricorrervi. Ha scritto al riguardo Gandhi, il più celebre padre della non-violenza: “Supponiamo che un uomo venga preso da una follia omicida e cominci a girare con una spada in mano uccidendo chiunque gli si pari dinnanzi, e che nessuno abbia il coraggio di catturarlo vivo. Chiunque uccida il pazzo otterrà la gratitudine della comunità e sarà considerato un uomo caritatevole” (Teoria e pratica della non-violenza, p. 69).
La guerra riguarderà sempre più anche il popolo russo, consegnato dal suo dittatore a un nero futuro: se si vuole la pace, anche i russi sono da aiutare ascoltando le loro ragioni, onorando la loro maestosa cultura, non emarginandoli come reietti. Soprattutto, dovremmo sorvegliare attentamente la nostra coscienza per far sì che non vi entri il veleno dell’odio, neppure di fronte alle immagini più strazianti della guerra iniquamente condotta da Putin. I russi infatti, per quanto ora costretti a obbedirgli, non sono Putin, così come i tedeschi non erano riducibili a Hitler, gli italiani a Mussolini, i serbi a Milošević, l’umanità a Caino. Nella Amsterdam occupata dai nazisti, una giovane donna ebrea, Etty Hillesum, poi uccisa ad Auschwitz, scrisse in una lettera datata dicembre 1942: “So che chi odia ha fondati motivi per farlo. Ma perché dovremmo sempre scegliere la strada più corta e a buon mercato? Ho potuto toccare con mano come ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo rende ancora più inospitale”.
di Antimo Puca