Con un’ordinanza di pochi giorni fa, relativa ad un incidente di esecuzione tuttora pendente, il Tribunale di Nola ha sospeso la demolizione di una casa di necessità, in accoglimento di un’articolata istanza presentata dall’avvocato Bruno Molinaro nell’interesse di una persona in condizione di grave vulnerabilità per il suo cagionevole stato di salute, per di più sprovvista di qualsiasi alloggio alternativo.
L’immobile da demolire era stato già formalmente acquisito al patrimonio del Comune che, tuttavia, pur avendo accertato la inottemperanza all’ordine di abbattimento, non si era mai immesso nel possesso del bene, che restava, dunque, nella materiale disponibilità dell’occupante e del suo nucleo familiare, comprensivo di figli minori.
Il provvedimento ha la sua significativa rilevanza e dovrebbe sensibilizzare soprattutto il Governo e il Parlamento sia perché il tema dell’housing sociale è di notevole impatto sociale sia perché interviene dopo che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 140 del 2018, ben nota alle civiche amministrazioni, ha stabilito che ”l’esito normale” dell’acquisizione di un immobile al patrimonio comunale è la sua demolizione, non già la sua conservazione, costituente, nell’attuale sistema, “fatto del tutto eccezionale”: ciò ovviamente pur tenendo conto della esistenza, nel Testo Unico dell’Edilizia, della disposizione dell’art. 31, comma 5, la quale prevede che “l’opera acquisita è demolita con ordinanza del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale a spese dei responsabili dell’abuso, salvo che con deliberazione consiliare non si dichiari l’esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l’opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici e ambientali”.
L’avvocato Molinaro, nel motivare la richiesta di sospensione ha, fra l’altro, evidenziato che, in Campania, la possibilità per la P.A. di destinare gli immobili abusivi acquisiti al patrimonio comunale a finalità di pubblico interesse mediante locazione o dismissione con titolo di preferenza a favore di coloro che, al tempo dell’acquisizione, occupavano il cespite, è stata espressamente prevista, prima ancora che dalla legge regionale n. 19 del 2017 (che, poi, è proprio quella dichiarata incostituzionale dalla Consulta) voluta dall’attuale Governatore De Luca, anche dalla legge regionale del 6 maggio 2013, n. 5, detta “Caldoro” dal nome del suo predecessore, tuttora vigente, in quanto non attinta dalla pronunzia di incostituzionalità.
Va detto che la perdurante vigenza della legge “Caldoro” è stata riconosciuta anche dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli in un parere relativo ad un incidente di esecuzione proposto dal Comune di Capri e dalla Corte di Appello di Napoli che, in un diverso procedimento, seguito dallo stesso avvocato Molinaro, ha sospeso la demolizione di un immobile sito nel Comune di Vico Equense in attesa che la Corte Costituzionale si pronunci anche sulla legittimità della legge “Caldoro”.
Nel dibattito giurisprudenziale è emerso, in buona sostanza, che la destinazione di un immobile ad edilizia residenziale sociale è senz’altro riconducibile ad una attività di natura pubblicistica, ricompresa nella nozione di “servizio pubblico locale rivolto alla produzione di beni e utilità per obiettive esigenze sociali”, tale intendendosi, appunto, secondo il linguaggio dell’Unione europea (artt. 16 e 86 del Trattato FUE), un servizio di interesse economico generale che viene a svolgere una funzione essenziale nell’ambito della costituzione economica di tutti i Paesi membri, rivolto all’utenza e capace di soddisfare interessi collettivi, garantendo una redditività.
Il tema del social housing è stato, inoltre, affrontato, per la prima volta in Italia, dal Consiglio di Stato nella sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 7 del 30 gennaio 2014, relativa alla legittimità di un programma di edilizia residenziale intrapreso da Roma Capitale.
In tale decisione si è ricordato che il social housing si è sviluppato nella metà del secolo scorso, nei paesi dell’Europa settentrionale, in conseguenza dell’evoluzione della scienza urbanistica, come tentativo di ampliare, qualificandola, l’offerta degli alloggi in affitto (e in misura minore anche in vendita), mettendo a disposizione nuove unità abitative a favore di quelle persone che, escluse per ragioni di reddito dall’accesso all’edilizia residenziale pubblica, non sono, tuttavia, in grado di sostenere i costi del libero mercato.
L’istituto nasce, pertanto, dalla necessità di ripensare gli insediamenti di edilizia sociale sul territorio non solo sotto un profilo quantitativo ma anche sul versante economico-qualitativo.
Il social housing si presenta, quindi, come una modalità d’intervento nella quale gli aspetti immobiliari vengono studiati in funzione dei contenuti sociali, offrendo una molteplicità di risposte per le diverse tipologie di bisogni, dove il contenuto sociale è prevalentemente rappresentato dall’accesso a una casa dignitosa per coloro che non riescono a sostenere i prezzi di mercato, ma anche da una specifica attenzione alla qualità dell’abitare.
La finalità del social housing, chiara espressione di discrezionalità amministrativa, è – in definitiva – quella di migliorare la condizione delle persone disagiate in quanto impossibilitate a sostenere un affitto di mercato, favorendo la formazione di un contesto abitativo e sociale dignitoso all’interno del quale sia possibile non solo accedere ad un alloggio adeguato, ma anche a relazioni umane ricche e significative.
È proprio in questo contesto socio-economico che ha trovato collocazione in Campania la legge regionale n. 5 del 2013, la quale, all’articolo 1, comma 65, si propone, appunto, di “favorire il raggiungimento degli obiettivi di cui all’articolo 7 della legge regionale 28/12/2009, n. 19 (…)” mediante il recupero e l’utilizzo “degli immobili acquisiti al patrimonio dei comuni quali alloggi di edilizia residenziale pubblica e di edilizia residenziale sociale, in base alla legge 22/10/1971, n. 865”.
Precedenti significativi in materia sono, inoltre, rappresentati anche da alcune decisioni della Corte Suprema di Cassazione, la quale ha avuto modo di chiarire che, “a prescindere dalla entrata in vigore della richiamata legge regionale, nel concetto di prevalente interesse pubblico al quale fa riferimento la normativa statale (art. 31, comma 5, d.P.R. n. 380/2001) certamente rientra anche quello alla realizzazione di alloggi di edilizia residenziale”.
Sempre il Consiglio di Stato, con una sentenza del 2017, ha, infine, ritenuto legittima la scelta “conservativa” della acquisizione, seppur con specifico riferimento all’articolo 31, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001, definendo tale norma quale “strumento sostanziale di redenzione della colpa.
Ciò perché:
“L’art. 31, comma 5, a chiusura di un articolato sistema sanzionatorio suscettibile di operare a fronte di edificazioni non legittime e non altrimenti recuperabili alla legittimità a favore dei privati – offre palesemente una via di uscita (consentendo, di fatto, alla mano pubblica ciò che non è permesso alla parte privata) rispetto alla soluzione finale della demolizione dell’edificazione abusiva, permettendo che – questa volta in mano pubblica – l’edificazione non legittima resti pur sempre in situ (…).
In un ordinamento nel quale la non consumazione del territorio, specie mediante edificazioni non legittime, costituisse valore assoluto, o, quanto meno, di grado sufficientemente elevato, quella norma non avrebbe motivo di essere, posto che allora la reintegrazione del territorio – mediante eliminazione di quanto l’ha non correttamente consumato – dovrebbe da esso essere pretesa senza eccezioni per alcuno.
Non così nel nostro, all’evidenza, dove invece quella norma funge da strumento di sostanziale redenzione della colpa (costituita dall’avvenuta edificazione non legittima), con l’unica attenuante data dal fatto che il perdono (a livello sostanziale ed oggettivo) non si risolva in vantaggio del singolo, autore della colpa, bensì dell’intera collettività”.
L’avvocato Molinaro, al quale abbiamo chiesto una sua opinione su come rendere concretamente praticabile l’obiettivo dell’housing sociale in presenza di demolizioni giudiziali incombenti, si è così espresso:
“L’housing sociale, quale causa di incompatibilità con la esecuzione dell’ordine giudiziale di demolizione, non può essere frutto di delibere consiliari di indirizzo, prive di specificità e concretezza, o addirittura a carattere seriale.
La conservazione può essere, infatti, disposta solo in casi particolari e sempre che le opere non contrastino con rilevanti interessi urbanistici, paesaggistici e di rispetto dell’assetto idrogeologico.
Del resto, questo è l’orientamento espresso dalla Cassazione in alcune recenti sentenze.
Cosa fare allora?
Ritengo che il legislatore debba rompere gli indugi, stabilendo una volta per tutte che la decisione di un comune finalizzata alla conservazione di un immobile abusivo per esigenze di housing sociale, che dia comunque garanzie sotto il profilo della sicurezza, costituisce la regola e non l’eccezione, sicché la stessa non può essere sindacata da alcun giudice e, dunque, nemmeno dal giudice penale, se non per dolo, trattandosi di decisione frutto di discrezionalità amministrativa in linea con i principi di matrice europea in materia di servizio pubblico essenziale.
A mio avviso, una iniziativa legislativa che vada in tale direzione può rappresentare, nell’immediato, una soluzione non traumatica, anche se certamente non la migliore, al problema della gestione, sul versante sanzionatorio, dell’enorme patrimonio edilizio abusivo italiano, affidata il più delle volte ad iniziative repressive improvvisate, senza criterio e a macchia di leopardo, che finiscono quasi sempre per colpire i soggetti più vulnerabili con conseguente violazione del principio di proporzionalità ripetutamente affermato dalla Corte Europea e dal gennaio del 2020 anche dalla nostra Cassazione”.