La commemorazione dell’apertura del lago in Porto d’Ischia è soltanto una delle tante tappe della complessiva riscrittura delle memorie pubbliche a cui stiamo assistendo in tutta Europa dal 1991. I pilastri di questa revisione sono il riconoscimento e la condanna dei totalitarismi. Insieme alla scoperta delle rimozioni e degli oblii precedenti e dei limiti delle narrazioni, emergono manipolazioni di breve respiro mentre il passato diventa oggetto dei media e non più dominio degli storici di professione. Alla storia si chiede giustizia invece che spiegazione. Il passato si trasforma in una prateria di ingiustizie con un effetto di sradicamento del rapporto tra nuove memorie ed esperienze locali e nazionali. E’ comprensibile che la fine della guerra fredda, con l’allargamento dell’Unione Europea a 28 paesi, abbia riaperto il dibattito sulle memorie storiche degli stati nazionali. Con la sussidiarietà voluta dal Trattato di Maastricht e la Riforma del titolo V della Costituzione si avverte l’esigenza di Memorie regionali e locali, che cercano ancoraggio ad unità amministrative mai prima esistite in autonomia. Forze politiche in cerca di legittimazione storica reinventano le radici dirette dei loro territori cercandole fuori dalla screditata democrazia dei partiti. Non sorprende, in questo quadro, che maturi una positiva sensibilità, una attenzione alle storie locali e alle loro differenze che hanno accompagnato alcuni passaggi della storia italiana.
(Antimo Puca)
Tuttavia sconcerta la decisione di celebrare la commemorazione dell’apertura del Lago in Porto D’Ischia assunta senza una seria istruttoria e un dibattito pubblico, quasi che storici e mondo della cultura non debbano interferire su certe materie. Per raggiungere un accordo trasversale tra le forze politiche, nell’illusione di spoliticizzare e creare una unificata memoria meridionale, si sono sovrapposte narrazioni. La scelta del 1854/57 commemora, con l’apertura del Lago in Porto, la fine della monarchia borbonica; infatti, con l’apertura del Lago in Porto, 1854, e la costruzione della Chiesa Di Santa Maria Di PortoSalvo, 1857, i Borbone di Napoli lasciano per sempre l’isola che tanto hanno amato, gettando le basi per il futuro turistico dell’intera isola. Cosi, in poche ore, ogni anno si ripete l’incanto della genesi del Porto, svuotandolo dal superfluo per farne assaporare i mormorii delle onde in un intreccio di gabbiani mentre lo sguardo spazia da riva a riva perdendosi nell’infinito azzurro cristallino, gentilmente filtrato e salutato da qualche flebile raggio che quasi volge al tramonto ed accarezzato dalla brezza marina ben nota agli antichi pescatori. Ischia parla al re (o al nostro sindaco?), ringraziandolo per aver realizzato ciò che aveva in mente senza aver pensato a nessuno, nemmeno ai “pecurioni” che si opponevano agli illuminati progetti del re. Questo termine comunque non si trova da nessuna parte se non consigliato prima e scritto poi da qualche spocchioso acculturato per dare bella mostra di personale sudditanza ed obbedienza. Ahimè, l’ingresso di Re Ferdinando lascia molto spazio alla immaginazione, poichè ben lontana dal presente storico epocale. Fiumi di Turisti ed isolani completamente disorientati circa l’evento, si dimenavano da una parte all’altra della riva. Alcuni costumi sembravano rituffarci nell’epoca napoleonica piuttosto che borbonica. Le strade suonavano un repertorio napoletano che ben si allontana dall’epoca di Paisiello. Il nostrano Pacera avrebbe saputo ricoprire gli stessi spazi con classe, nel suo misto tra semplicità e simpatia, degnamente accompagnato dal suono dei mandolini. Superbo lo spettacolo di giochi sull’acqua. Cosi come l’ “aria da baule” era l’asso che copriva i pasticci che avvenivano in teatro, i meravigliosi fuochi pirotecnici hanno coronato un evento di mediocre riuscita e per cui sono stati spesi 60 mila eur, soldi che potevano essere destinati al miglioramento della nostra sanità, ad aprire un reparto oncologico per i troppi ischitani malati di tumore che sono costretti alla chemio. Un sindaco che vorrebbe sostituirsi ad un sovrano assoluto avrebbe il dovere di guardare anche i suoi cittadini in difficoltà. Si celebra la data desiderata da un neo borbonismo nostalgico e si identifica nella defunta monarchia sabauda o nello Stato italiano?. Il capro espiatorio dell’odierno declino meridionale. Lo confermano le motivazioni che collegano l’unità alla fragorosa scoperta di un Sud Borbonico evoluto rispetto alle altre realtà del XIX secolo. I sogni non si negano a nessuno e la storia non è in bianco e nero, ma la questione cambia se si impongono perentorie interpretazioni del passato. A maggior ragione se dovessero servire da guida per celebrazioni e dibattiti nelle scuole e nella società civile. La strada aperta rende breve il percorso verso una autoliquidazione della tradizione liberale e democratica dello Stato Nazionale, strada che, specialmente dal secondo dopoguerra agli anni ottanta, molto ha fatto con la Riforma agraria, l’intervento straordinario e l’istruzione pubblica per mettere in moto il Mezzogiorno e portarlo ad una crescita dei redditi e degli investimenti. Nonostante alcuni limiti di quelle iniziative, oggi si sente la mancanza di una analoga progettualità. Della reinvenzione della storia non meriterebbe parlare se non riguardasse il nostro vivere civile, il modo in cui ci rapportiamo alla Unione Europea, e il nostro presente. Virgilio vedeva il mito fondatore della migliore Roma in Enea che porta sulle spalle Anchise, un migrante dell’Anatolia che fonda altrove una città multietnica e un impero, il presente che si fa carico del passato in vista del futuro. L’etica della responsabilità è tanto più necessaria quando all’orizzonte compare l’etica esclusivista della appartenenza etnico-territoriale.
di Antimo Puca