TRA ISRAELE E PALESTINA, E’ UNA GUERRA CHE NON SI RISOLVE DAI SALOTTI DI CASA. DI ARCANGELO MONACILIUNI

LA PACE (pressochè) IMPOSSIBILE.
“Se io ti dimentico, Gerusalemme,
che la mia mano destra si secchi,
che la lingua si attacchi al palato…”
è il canto dei fanciulli esiliati da Israele (Salmo 137),
“Oh Gerusalemme, terra eletta da Allah
e patria dei suoi servi, è dalle tue mura
che il mondo è divenuto il mondo…”
son le parole di Maometto (riportate nell’Hadit).
Ecco, plasticamente raffigurata, l’impossibilità o, se la speranza non si può abbandonare, l’estrema difficoltà, di assicurare una pace stabile in quella parte martoriata di mondo.
Per quanto la storia non sia immobile i popoli che calcano quella terra, divisi a partire dalle discendenze di Isacco e di Ismaele, vivono la religione nel suo significato etimologico di legame, di essere legati al Dio e dal Dio. La loro vita, come singoli e come comunità, di questo legame è impregnata in maniera pressocchè totalizzante, se pur -certo- con diverse gradualità.
Gerusalemme, ovvero Al Quds, è sacra per ebrei, islamici e cristiani e la sua sacralità è testimoniata dai simboli che vi sorgono ad un passo l’uno dall’altro, anzi a meno di un passo. I resti del muro di cinta occidentale del (secondo) Tempio, distrutto dalle legioni di Tito, da duemila anni simbolo del legame indistruttibile fra Yahweh ed il popolo ebraico, confinano con la Spianata delle Moschee, con la Cupola della Roccia da cui Maometto ascese al cielo. Poco più in là i luoghi simbolo del Cristianesimo, della predicazione, passione e morte del Cristo.
A Gerusalemme, per Gerusalemme, ombelico del mondo, per quanto essa significa per ciascuna delle tre religioni monoteiste, per la conquista o la liberazione, a seconda della prospettazione di parte, dei Luoghi Santi, si è combattuto, si è versato sangue, dall’alba della storia.
E nessuna risoluzione dell’ONU sarà in grado di far venire meno questa sacralità che, per quanto si faccia mostra di accettare, si frappone a perdite di sovranità, invero consustanziali alla sacralità, cui solo il cristianesimo, melius il cattolicesimo, ha rinunciato, ben vero per non aver da rivendicare “territori”, consegnata alla storia l’epoca delle Crociate e del Regno di Gerusalemme.
I simboli, stratificati su millenni, son tutto. Ignorarli è segno di molta miopia.
La stessa, condivisibile, condanna degli opposti estremismi, della destra israeliana e di Hamas, l’evidenziazione delle ragioni di politica interna che ancora una volta possono aver mosso l’una e l’altro, facendo da sfondo all’ennesima crisi tuttora in corso (dovuta in parte alle limitazioni alla partecipazione dei musulmani alle preghiere sulla spianata del Tempio nel mese di Ramadan ed in parte all’opposizione ad uno sfratto di famiglie palestinesi a seguito di una decisione giudiziale) restano vane se accompagnate dal mero auspicio che prevalgano le c. dette forze moderate: id est, la sinistra israeliana e (parte del) l’Organizzazione per la liberazione della Palestina.
Certo, la via della pace non può prescindere dall’abbandono dei fondamentalismi, per dirla tutta non può prescindere dalla laicità, dalla separazione fra sfera religiosa e politica. E’ possibile? Sarà mai possibile? Accadrà? Quando? Ad oggi il sogno dei pionieri ebraici di costruire uno Stato nel quale la tradizione giudaica convivesse con una democrazia sociale, uno Stato che non negasse il diritto dei palestinesi al loro focolare nazionale (nel 1925, all’indomani della creazione del “Focolare Nazionale Ebraico in Palestina, lo riconobbe Chaim Weizmann), ha dovuto fare i conti, i molti conti, con il fanatismo degli ultraortodossi e, dal canto suo, il popolo palestinese, il più laico fra quelli mediorientali, ha a sua volta dovuto fare i suoi molti conti con il fanatismo delle moschee, con le incitazioni alla jihad, rigettato dal fluire degli eventi nelle braccia di un islamismo totalizzante.
Veritiera appare la profezia fatta dal delegato siriano alle Nazioni Unite il 29 novembre del 1947, non appena l’Assemblea generale ebbe approvata, alla terza votazione, nella quale fu raggiunto il quorum, la risoluzione 181 sulla spartizione della ex Palestina mandataria britannica in due Stati, l’uno ebraico, l’altro palestinese, con Gerusalemme internazionalizzata in ragione delle dichiarazioni di numerosi Paesi cattolici del Sudamerica che, senza questa, non avrebbero votato a favore della divisione. Egli esclamò: “I Luoghi santi stanno per attraversare lunghi anni di guerra e la pace non vi tornerà prima che siano passate diverse generazioni”.
Ed i lunghi anni ebbero inizio immediatamente, con i delegati arabi che si alzarono ed uscirono dalla sala dell’Assemblea, con le invocazioni alla Jihad mondiale in difesa della Palestina araba, con gli eserciti arabi che il 14 maggio del 48, appena proclamata la nascita dello Stato ebraico, avanzarono compatti per impedirla, illudendosi che il solo ammassare le loro truppe ai confini sarebbe stato sufficiente a piegare la volontà di resistenza degli ebrei. Ma così non fu e così non fu nel 1967 allorquando gli eserciti arabi furono ancora una volta sconfitti da Israele e ne seguì l’attuale stato dei luoghi, certo non conforme alla risoluzione dell’ONU, ma certo derivante dagli esiti di una guerra.
Assegnare colpe, ma ancor prima ergersi a giudici, conferirsi questo diritto, non è affatto agevole. Troppo intricati i nodi, antichi e recenti, il lungo filo che ha ricondotto il popolo ebraico alla Terra Promessa e costretto all’esodo coloro che vi erano insediati.
Non è dubbio che se l’esito della votazione sulla risoluzione 181 fosse stato diverso sarebbe stata Israele, ovvero gli ebrei insediativi ed in attesa “attiva” della nascita dello Stato, a non accettare la decisione e ad imbracciare per primi le armi.
E non è dubbio che poche speranze vi sono in un futuro non bagnato da altro sangue fin quando gli ebrei si faranno scudo dell’Olocausto, richiameranno la notte dei cristalli ad ogni incendio/saccheggio di loro attività e fin quando i palestinesi in ogni frangente evocheranno la Naqba, la catastrofe, ovvero l’espulsione o la fuga di centinaia di migliaia di palestinesi in ragione della nascita dello Stato ebraico. Se Olocausto e Naqba rappresenteranno, come rappresentano, non riferimenti storici, ma elementi costitutivi delle attuali identità dei due popoli, io credo vi sia poco spazio per la dea ragione.
Se vogliono evitarsi frettolosi giudizi, se si vuol tentare, per lo meno tentare, di comprendere, dovrebbero esser banditi i sentimentalismi (non i sentimenti) e leggersi la storia.
E, ad una prima sua lettura, fermo il riconoscimento della parte sostenuta dai fondamentalismi nel martirio di questa terra, si potrebbe anche esser tentati di ritenere che se colpe hanno ad esser individuate nella “questione palestinese”, che investe, troppo spesso questo vien dimenticato, l’intero mondo arabo ed i suoi rapporti con Israele, queste vanno ascritte non solo a coloro che hanno ottenuto quel “focolare nazionale” promesso da Lord Balfour agli ebrei il 2 novembre del 1917, non solo a coloro, nella persona dello sceriffo della Mecca, che si eran visti promessa dalla stessa Gran Bretagna e dalla Francia (nel 1916 con il progetto Sykes Picot Agreement e le dichiarazioni di Mac Mahon, Alto commissario britannico al Cairo) la restaurazione del Califfato che avrebbe inglobato anche quei territori, ma, o anche, a coloro -Inghilterra e Francia in primis, ma in buona compagnia- che hanno alimentato speranze, che con tratti di matita sulla carta geografica si sono arrogati il diritto di creare Stati, assegnare territori, spostare confini. Giordania, Siria, Iraq son nati da semplici tratti di matita apposti sulla carta geografica, di cui (della semplicità di tracciare linee) Churchill ebbe a menare pubblico vanto.
Ma, anche qui, al di là delle immagini e delle narrazioni ad effetto, sarebbe troppo semplice attribuire colpe. L’impero ottomano si era dissolto ed i vincitori decisero le sorti dei territori che ne facevan parte sulla scorta dei propri interessi, come sempre è accaduto nella storia dell’uomo.
E ancora semplicistico sarebbe parlare di “colpe” in relazione alla decisione delle Nazioni Unite del 47 sulla quale, fermo il peso dell’Olocausto, del suo significato per la coscienza del mondo intero, del simbolismo del dramma dell’Exodus, con il suo carico dei quasi 5000 sopravvissuti ai campi di concentramento e vaganti in mare, influì anche il dato che il secondo conflitto mondiale aveva visto gli ebrei, la Brigata Ebraica, stare dalla parte giusta ed il Gran Muftì di Gerusalemme da quella sbagliata.
E tanto senza dimenticare che, cessati con la fine del secondo conflitto mondiale, i domini coloniali delle potenze europee, non per questo son cessati gli imperialismi e le politiche internazionali di potenze locali e globali. Anzi, per lo meno nell’ultimo ventennio, sullo scenario mediorientale, è dato assistere ad un protagonismo sempre più marcato di potenze locali, quali Turchia, Iran e Arabia Saudita, alla ricerca di un assetto confacente ai loro interessi particolari, alle loro pretese/sogni egemoniche/i in un confronto con gli onnipresenti interessi strategici di America e Russia, cui vanno oggi aggiunti quelli della Cina. Protagonismi, interessi, sogni che poco hanno a che fare con la “questione palestinese” in sé per sé, anzi che vedono quest’ultima utilizzata, più o meno cinicamente, trincerati anche dietro la cortina fumogena dei legami religiosi.
In questo contesto -oggi, ma ancora ieri e domani, chè le ostilità si fermeranno, ma solo in attesa della prossima volta- si appalesa del tutto riduttivo limitarsi ad ascrivere colpe ai razzi di Hamas o alle operazioni militari di Israele, a tirar fuori l’armamentario umanitario, piangere per i bambini uccisi, sempre facendo leva su sensazioni/sentimenti, del tutto scollegati con la realtà, la dura realtà, che impone scelte per preservare la vita. Ed è francamente intollerabile che lo si faccia, che si lancino anatemi, ben sprofondati negli agi di casa propria, senza minimamente tentare di comprendere cosa significhi, ogni giorno della tua vita, uscire di casa senza sapere se vi farai ritorno, cosa comporti il vivere in queste condizioni, quale sia la vita, e se tale possa nomarsi, nei campi dei profughi. La questione non la si risolve con bandierine di anime candide che fan fatica, o mostrano di farla sempre dai salotti di casa, a comprendere come una giusta soluzione -al problema di Gerusalemme, a quello dei rifugiati, costituente, sotto il profilo pratico, nodo ben maggiore di quello relativo allo status di Gerusalemme e nodo non risolto dalla equivoca formulazione della risoluzione n. 242 del 1967, all’esito del conflitto dei sei giorni, ed ai restanti intrecci da sciogliere- vada negoziata e non possa reggersi su affermazioni di principio, tanto magniloquenti e tanto vuote e prive di effettività, anche in quanto e per quanto redatte con formulazioni ambigue, tali da poter consentire ad ognuno di potervi leggere quel che più vi aggrada, ed in quanto e per quanto prive di capacità di essere imposte. Ma questo è altro, se pur non disgiunto, capitolo.

di Arcangelo Monaciliuni

Costituzionalista

già Magistrato T.A.R. Campania

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