LA MAGISTRATURA ED IL GRIDO DI DOLORE. DI ARCANGELO MONACILIUNI

Il 10 gennaio del 1859, nel discorso di apertura del parlamento subalpino, Vittorio Emanuele II pronunciò la frase che dette avvio alla seconda guerra di indipendenza italiana: “Non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi”. La utilizzo ad incipit di questa riflessione solo, e sottolineo il solo, in quanto riemersami alla mente a fronte delle grida di dolore rivolte da più parti d’Italia al Presidente della Repubblica a che alzi alta la sua voce in presenza del susseguirsi di “scandali” che investono la magistratura.
Da fonti semi ufficiose, quotidiani che si atteggiano ad interpreti più o meno autorizzati del pensiero del Quirinale, apprendiamo che il Presidente Mattarella -ancor oggi, in presenza della vicenda Amara (nomen omen), che fa temporalmente seguito a quella definita “le chat di Palamara” e coinvolge a vario titolo esponenti di primissimo piano della magistratura, il suo stesso Consiglio Superiore, nelle persone del Vice Presidente e di diversi Consiglieri- riterrebbe che non vi sia spazio per un suo intervento ad evitare di interferire con le attività processuali in corso. “Oggi il Capo dello Stato al CSM non parlerà. Della vicenda -ricordano dal Quirinale- si stanno infatti occupando ben quattro procure. Ogni ulteriore intervento si configurerebbe come un’indebita interferenza nelle indagini in corso”. (così il Manifesto del 6 maggio u.s. e, in tali sensi, altri quotidiani).
A fronte di tali fatti -“scandali” e sostanziale silenzio del Capo dello Stato- da più parti si sono alzate grida di dolore e richieste di intervento della viva vox Costitutionis: ben si intende, non inammissibilmente in merito alle concrete vicende al vaglio della magistratura, ma allo stato generale della giustizia.
A sinistra l’autorevole voce di Rino Formica -dopo aver ricordato che la richiesta di invio di un messaggio alle Camere è stata avanzata dal “partito radicale, un piccolo partito, ma che nella storia della Repubblica italiana rappresenta una componente non trascurabile della coscienza critica della società”- a chi ritiene dovuto il silenzio ha opposto questa considerazione: “È come dire: vogliamo sapere che malattia ha il nostro corpo sociale e politico e si risponde che se ne sta occupando il malato.” (così’ sul quotidiano Il Domani del 8 maggio 2021, in seno all’articolo “Lotta nella magistratura. Tutti i rischi del silenzio del Colle sulla giustizia”).
Ed ancora alta, sul fronte liberale, si è levata la voce di Marcello Pera: “Mattarella ha ragione nel dire che non è suo compito specifico entrare nel merito delle cose che sono successe. Però c’è un’opinione pubblica che si aspetta da lui delle parole. Siamo frastornati, allibiti, insicuri. Non crediamo più nella magistratura. Mattarella dovrebbe dare risposte. Tocca fare capire agli italiani che qualcuno si sta prendendo cura di questo grave bubbone.” (Intervista su Libero Quotidiano del 10 maggio 2021).
E ancora: “Non credo ci si possa ancora illudere in una rigenerazione endogena, né del Csm, né dell’ordine giudiziario nel suo complesso. Lo conferma l’ultima, deprimente, questione dei “verbali avvelenati”. È chiaro che la magistratura ha bisogno di un intervento normativo capace di riformarne l’autogoverno, e l’intervento non può che provenire dall’esterno, dunque dal Parlamento”. Così, da ultimo, Giovanni Maria Flick, Presidente emerito della Consulta, sul Dubbio del 5 maggio 2021 in un’intervista che fa seguito a diverse sue altre degli ultimi tempi, ivi compresa quella rilasciata al Foglio il 29 maggio del 2020 per augurarsi che “arrivi presto un intervento autorevole del presidente della Repubblica. Non sta a me indicare le azioni da intraprendere, ma è evidente che il capo dello Stato, che è anche il presidente del Consiglio superiore della magistratura, potrebbe rivolgere un messaggio alle Camere anche in questa specifica veste. Non esiste il potere di cacciar via gli indegni dal regno ma siamo di fronte a molteplici illeciti, di carattere deontologico, disciplinare e forse penale, che si trascinano da troppi anni…”.
E, infine, sempre per come riportato dalla stampa, da ultimo componenti del gruppo Articolo 101 del comitato direttivo dell’Associazione Nazionale Magistrati, intervenuti sulla vicenda Amara, han sostenuto che “l’immediato scioglimento del CSM rappresenta la precondizione per superare l’autodelegittimazione ad opera della magistratura organizzata e ridare credibilità alla giustizia” (Il Giornale.it del 4 maggio 2021 ed altri quotidiani).
Potrei continuare, e per molto, ma credo basti. Ad immediato ridosso dell’esplosione dello scandalo “Palamara” con il suo carico di drammaticità in quanto denunciante un “sistema”, ho sostenuto, ben vero pressocchè isolato, che una lettura organica del coacervo normativo costituzionale ed ordinario avrebbe consentito/consentirebbe al Capo dello Stato lo scioglimento “straordinario” del Consiglio Superiore della Magistratura, potendosene ritenere l’ammissibilità (già) de iure condito. E tanto senza che a tale misura potesse/possa essere opposto come, in mancanza di una nuova legge che ne disciplini la nomina, non si potrebbe porre rimedio alla “degenerazione correntizia” del Consiglio Superiore ed agli incestuosi “intrecci” con la politica. Ed invero, in disparte le esistenti possibilità tecniche per ovviarvi, quel che più conta, hic et nunc, è il messaggio che ne conseguirebbe e che sarebbe consegnato al Paese intero. Che la fiducia nella magistratura sia ai minimi storici è un dato incontrovertibile. Che, al di là di quanto amiamo raccontarci, l’Italia non abbia il rispetto degli altri Paesi anche per come viene da noi amministrata la giustizia è un dato altrettanto incontrovertibile.
E, dunque, ben può comprendersi l’invocazione, le invocazioni, che da tanta parte d’Italia si alza(no) a che il Capo dello Stato “intervenga”.
E’ dato tuttavia immaginare che il Presidente nè scioglierà il Consiglio, posto che a ridosso dello scandalo Palamara una nota formale del Quirinale ebbe a negare la sussistenza del potere “straordinario” nel caso da esercitarsi, nè farà ricorso allo strumento del messaggio presidenziale alle Camere che l’art. 87 Cost. colloca al primo posto fra i poteri presidenziali.
Quanto a quest’ultimo potere è dato ritenere che non sarà esercitato (non tanto o non solo perché quattro procure sono impegnate sulla vicenda Amara ed altre su quella delle “chat di Palamara”, ma) nell’assunto che il Parlamento, con l’ausilio di gruppi di esperti in dirittura di arrivo, è al lavoro sulla riforma della giustizia che, come ha ricordato il ministro Cartabia, “è condizione perché arrivino in Italia non solo i 2,7 mld del PNRR destinati alla giustizia, ma i 191 miliardi destinati a tutta la rinascita economica e sociale italiana” (così la stampa di questa mattina: cfr., per tutti, il Corriere della Sera).
Orbene, io non so se gli interventi annunciati, soprattutto incidenti sulla durata dei processi tutti: civili, penali, amministrativi, tributari, sulla transizione digitale e sull’incremento delle risorse, anche umane, verranno adottati e saranno bastevoli a rispettare gli impegni assunti in sede europea e a farci accedere alle provvidenze del Recovery fund.
E’ dato credere che si troverà un’intesa, che, frutto di bilanciamenti e compromessi fra opposte visioni, una intesa troveranno i “nemici” costretti a stare insieme in Parlamento per insieme sopravvivere, superando gli ultimi tratti di quello che, con felice espressione, è stato definito il “tunnel della democrazia sospesa”. Il 2023 e le elezioni politiche generali sono ormai vicini e, ancor prima, vicino è il 2022, con lo snodo delle elezione del nuovo Capo dello Stato o della riconferma, nel caso ad tempus, dell’attuale inquilino del Quirinale.
Ed è dato credere che, anche in ragione della indiscussa autorevolezza del Presidente Draghi, con l’Europa non si romperà e si troveranno vie per accedere (comunque) alle provvidenze.
Ma è dato ancora credere che gli interventi annunciati, quali annunciati, proprio in ragione di quelle scadenze cui ho fatto or ora cenno e delle aspettative, legittime, ben si intende, di parti politiche e di singoli, proprio in ragione dei veti incrociati, immancabili sulle questioni di fondo, in particolare riferimento al processo penale, ben difficilmente sostanzieranno quella incisiva e complessiva riforma della giustizia, senza la quale poco cambierà, ma molto resterà tal quale.
Ed è dato infine credere che il conto della mancata riforma, quella indispensabile per cambiare il volto del Paese, sarà presentato in avanti, dalla storia.

di Arcangelo Monaciliuni

Costituzionalista

già Magistrato T.A.R. Campania

 

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