Considerazioni del 1 maggio, festa dei lavoratori. Il lavoro è un Diritto sancito dalla Costituzione. Il lavoro nobilita l’uomo. Uno Stato dovrebbe sempre garantire l’inserimento lavorativo, anche alle categorie protette, perché il lavoro non è solo lo stipendio in busta paga ma è un’attività di espressione dell’essere. In altre parole, svolgere un lavoro dà significato all’esistenza perché si è collocati in un sistema configurabile come una catena di montaggio in cui tutti i pezzi hanno una loro funzionalità e la mancanza del più piccolo dei bulloni potrebbe provocare danni al prodotto. Il sistema è lo Stato ed il prodotto è il Bene Comune. Come è possibile che, in una situazione come quella odierna, in cui milioni di persone hanno perso il lavoro, milioni di persone ancora lo cercano (perché, prendiamocela con il Covid, ma non è che nel 2019 il lavoro ti piombasse sulla noce del collo). Milioni di persone pagano per lavorare nella speranza di entrare nel giro. Altri ancora elemosinano la giornata. Ebbene, come è possibile che non ci sia aria di rivoluzione. Perché non ci alziamo da questo divano ove sprofondiamo sempre più nell’autocommiserazione non prendiamo quattro pale e andiamo a spalare la melma che ci ha ridotto così? La stessa melma che paghiamo oro colato tra pensioni, stipendi, benefit e chivicihamesso. Negli anni ’60 i dipendenti di fabbriche, istituzioni e varie scendevano in piazza e si facevano paura da soli per quanti erano e per quanti urlavano. E non avevano un Facebook o Twitter per dirsi: “we, ci vediamo domani alle 7 a Piazza Tal de Tali”. C’ era il Sindacato che non andava a pranzo con i ministri ma fiancheggiava gli operai mangiando pane e mortadella. 1 maggio. La festa, oggi, per molti, sarebbe andare a lavorare. Se i nostri genitori ci vedessero così ci sputerebbero in un occhio e ci direbbero che la “Laura” ce la siamo presa a ripetere e ripetere le quattro stronzate scritte sui libri. Ma di quelle stronzate non abbiamo capito proprio niente. Hanno vinto loro.
Al Governo, o, meglio, ai suoi componenti, i cittadini chiedono, fra le tante cose, pure una garanzia di stile, di quello stile che non è solo formalismo bensì, com’è stato detto, è l’uomo, la sostanza della persona. E gli uomini, dice Sancho Panza, nascono come Dio li ha fatti e talora anche un po peggio. Tutti hanno il diritto di attendere e pretendere dalla lotta, inevitabilmente e giustamente dura, uno stile civile. Questo piacere di vivere, nutrito dal senso dell’appartenenza a un comune destino, potrebbe fare, se condiviso da molti, dell’Italia quell’italia civile che invece, ripeteva spesso Biagio Marin, è forse solo un’esigenza di pochi. 1 maggio. Non dobbiamo festeggiare. Non ne abbiamo più il diritto.