LO SCUDO PENALE PER MEDICI VACCINATORI. DI ARCANGELO MONACILIUNI

Sul Corriere della Sera di ieri, 17 marzo, si legge: “Lo «scudo penale» per i medici-vaccinatori, a tutela degli operatori sanitari impegnati nella campagna vaccinale (e che ne possa favorire l’adesione), potrebbe arrivare a breve. La richiesta partita dalla Federazione nazionale degli ordini dei medici, ed abbracciata da tutti gli operatori sul campo, è stata infatti accolta dal governo che -come ha annunciato il ministro della Salute Roberto Speranza- sta già lavorando a una norma in questa direzione”.
Orbene, una copertura, il c. detto scudo penale, ad attività singole, particolari, viene evocata/o sempre più di frequente.
E’ avvenuto nella vicenda Ilva-Arcelor Mittal, in presenza di una richiesta dei nuovi gestori volta ad ottenere tutela da inchieste afferenti ad anni precedenti il loro ingresso, la hanno chiesta i bancari per decidere velocemente sui prestiti antiCovid per le imprese in crisi, la invocano oggi a gran voce i soggetti ”vaccinatori” per tutelarsi da indagini e/o processi legati ad eventi dannosi, in tesi riconducibili alla somministrazione del vaccino.
Mi soffermo, per brevità, su quest’ultima richiesta che scaturisce non da meri, astratti, timori dei medici e dei loro rappresentanti, ma da concrete iscrizioni nel registro degli indagati avutesi in questi ultimi giorni e giustificate, ancora una volta, con il richiamo all’obbligatorietà dell’azione penale e, quindi, alla tutela degli stessi medici e/ o di altri operatori utilizzati per la campagna vaccinale asseritamente in grado, (solo) una volta iscritti, di tutelarsi adeguatamente: id est, di nominarsi un avvocato e un consulente di parte per assistere alle operazioni peritali.
In assenza di elementi sulla formulazione della norma che sarebbe in corso di emanazione non possono essere anticipati giudizi. Di certo, sarà ben difficile costruirne una, nel contempo efficace ed efficiente, ovvero non generalizzata, in senso oggettivo e soggettivo. A mò di esempio, la norma sarebbe sicuramente inammissibile/incostituzionale, ove si prestasse a coprire anche errori propri dell’operatore.
Ciò fermo, in primo luogo io credo non possa dubitarsi della legittimità della preoccupazione dei “vaccinatori” e della necessità di garantir loro serenità psichica, senza esporli a gogne, quali son divenute le iscrizioni nel registro degli indagati, a spese (avvocati e consulenze) di notevoli entità ed a processi dei quali del tutto incerto è il termine finale. E questo, tutto questo, a meno di singoli episodi che conducano a responsabilità proprie, personali, soltanto per aver fatto il proprio dovere, quello stesso “adempimento di un dovere” in cui presenza l’art. 51 c.p. “esclude la punibilità”.
Ma se tutela è da esser concessa, in luogo di por mano a coperture/scudi settoriali, che rappresentano sempre un vulnus alla natura generale delle leggi, perché non concentrarsi su due specifici profili a portata universale: il primo inerente la obbligatorietà dell’azione penale ed i suoi corollari, il secondo la responsabilità dei magistrati (ma) con netta differenziazione fra quelli inquirenti e quelli giudicanti?
Quanto al primo profilo, vien fatto da osservare che l’art. 112 Cost. recita: “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”; l’art. 335 c.p.p., comma 1, dispone che: “Il pubblico ministero iscrive immediatamente, nell’apposito registro custodito presso l’ufficio, ogni notizia di reato che gli perviene o che ha acquisito di propria iniziativa, nonchè, contestualmente o dal momento in cui risulta, il nome della persona alla quale il reato stesso è attribuito”. E, soprattutto, (vien fatto di osservare) che è l’art. 405 c.p.p. -il primo del Titolo VIII recante la “Chiusura delle indagini preliminari”- ad occuparsi dello “Inizio dell’azione penale” fissandolo al momento in cui “il pubblico ministero, quando non deve richiedere l’archiviazione, esercita l’azione penale formulando l’imputazione …”. E’, quindi, il codice di rito a sancire la netta separazione fra la fase delle indagini e quella dell’esercizio dell’azione penale che ha inizio solo allorquando il pubblico ministero sceglie, in forza degli elementi acquisiti, se dare inizio a quest’ultima oppure chiedere l’archiviazione.
Ma se così è, e così è, perché mai far retroagire la portata del precetto costituzionale fino a far ritenere in esso ricompresa l’obbligatorietà di indagini previe e non soltanto l’esercizio dell’azione penale rettamente intesa? Perché non ipotizzare che il Costituente abbia solo voluto intendere che nessun cittadino può essere sottratto al giusto processo, (ma soltanto) una volta che per la sua celebrazione sussistano i presupposti di legge?
E, dunque, davvero esistono, imposti dal precetto costituzionale, obblighi di iscrizione nel registro degli indagati e, di più, tali obblighi sussistono in presenza non di notizie di reato, ma di una notizia qual che sia, riservando alla successiva indagine la verifica sulla sua riconducibilità nelle categorie dei reati?
Io non lo credo. Del resto, a chiudere il cerchio ermeneutico, ben sovviene l’art. 109 delle norme di attuazione al c.p.p. (“La segreteria della procura della Repubblica annota sugli atti che possono contenere notizia di reato la data e l’ora in cui sono pervenuti in ufficio e li sottopone immediatamente al procuratore della Repubblica per l’eventuale iscrizione nel registro delle notizie di reato.”). Se l’iscrizione è definita solo come “eventuale” non può che trarsene che l’obbligatorietà scatta solo se il “reato” è già noto nei sui “elementi essenziali”, noti o ignoti che siano gli autori del fatto/reato.
Mutatis mutandis -e sottolineo il mutatis mutandis- similari vicende procedimental/processuali si verificano anche nell’ambito del processo amministrativo in presenza di domande giudiziarie sfornite di ogni principio di prova, ma accompagnate da richieste di consulenze tecniche di ufficio volte a supportare la domanda, ovvero a condurre all’accertamento della sussistenza del diritto preteso. Domande -semplificando, ben si intende- nel processo amministrativo ritenute inammissibili in assenza di indicazione/produzione di elementi (documentazioni, perizie di parte, etc.) atti a promuovere i poteri istruttori del Collegio, ovvero in presenza di domande sostanzianti mere richieste di indagini esplorative (in tali sensi gran parte della giurisprudenza).
Ed allora, quali ostacoli normativi si frapporrebbero ad una previsione primaria che, all’uopo modificando le relative norme codicistiche, intervenisse per prevedere un filtro, ovvero che consentisse di indagare solo in presenza di denunce qualificate, corroborate da un minimum di “indizi” e non già in presenza della mera notizia dell’evento? Quali ostacoli normativi si frapporrebbero a rendere effettive, estendendole alla fase procedimentale, le previsioni/sanzioni sui “litiganti temerari”? Quali ostacoli si frapporrebbero a norme primarie che esplicitamente caducassero previsioni regolamentari interne alla magistratura (circolari, modelli et similia) che avessero a condurre a diversi approdi?
Né a queste mie prospettazioni/proposte potrebbe essere opposto che è sempre il giudice a vagliare l’attività del Pubblico Ministero ed a “decidere”. Ed invero, i piani restano diversi, ben diversi, sostanzialmente e temporalmente.
Quanto al secondo profilo, io credo sia sufficiente por mente al dato che l’accusare ed il giudicare sono due terreni completamente distinti. Dato, questo, che non è solo concettuale, ma che trova sicuro richiamo nella Carta Costituzionale. L’art. 101 Cost. recita: “La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Netta la separazione con l’art. 112 Cost., già sopra richiamato, secondo cui ‘Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale’. Troppo lungo sarebbe qui ripercorrere il cammino in base al quale si è ritenuto costituire dogma, indiscutibile, quello secondo il quale l’attività dei pubblici ministeri, dell’Ufficio dell’accusa, sarebbe anche essa interamente attratta/giustificata dalla legge, così come per i giudici, ovvero con le medesime modalità.
Ma se questo più ampio discorso, che involge all’evidenza la vexata quaestio della unicità o meno delle carriere, può esser lasciato ai tempi venturi, se mai arriveranno, della Grande riforma del pianeta giustizia, cosa mai si opporrebbe ad una più immediata differenziazione del regime delle responsabilità civili e disciplinari dei magistrati in presenza di funzioni certamente differenziate?
Concludo osservando come non possa sfuggire a nessuno che una meditazione sui due punti di cui mi sono fin qui occupato e sulle connessioni che li lega, non è oltre procrastinabile.
E le ragioni sono sotto gli occhi di tutti, di chiunque abbia occhi per vedere ed orecchie per intendere.

di Arcangelo Monaciliuni

già Magistrato T.A.R. Campania

Costituzionalista

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