TERREMOTO. “COSCIENZA PERDUTA” DI ANTIMO PUCA

Ischia si gira nel sonno e ci ricorda quanto siamo impotenti. Un lapidario:”I terremoti non uccidono. Gli edifici che crollano,si. La prevenzione prima di tutto”. Mi trovo a domandarmi quanti degli edifici privati,crollati in tutto o in parte,fossero in regola con tutta la normativa. Inutile chiederselo:pochissimi,forse nessuno. E mi fa male pensare a quante persone del tutto incolpevoli- bambini,anziani,malati,-si trovano ad essere strappati dai luoghi degli affetti,per colpa di una prassi scellerata tutta ischitana:chiudere un occhio o anche due o tre,sulle costruzioni abusive che sono cresciute come una lebbra sul territorio ischitano negli ultimi sessant’anni,poi,a intervalli regolari,sanate,per fare cassa. Le leggi degli uomini si possono anche aggirare. Quelle della fisica,no. Mi dispiace per chi sta soffrendo. Ma invece di prendersela con lo Stato o il destino cieco e baro,se la prenda con i proprii
familiari,che hanno corrotto geometri comunali,allungato bustarelle,pagato sanatorie.

Scriveva circa trent’anni fa il vate tedesco Ernst Jùnger:”Il sospetto di essere avvelenati diventa epidemico,e non senza ragione. Ognuna delle antiche celebri città aveva il proprio melos;lo si poteva ascoltare,con gli occhi
chiusi,nel luogo e nell’ora in cui vi si era accolti come ospiti. Dei quattro elementi,l’acqua,l’aria e la terra
sono divenuti sospetti. Cresce la potenza del fuoco”. Non era una profezia. Era una prognosi,e niente
affatto fausta. Si direbbe che siamo scesi ai ferri corti con gli elementi,in questa estate di afa estenuante.
La terra continua a tremare -Terrae motus- negli epicentri funestati. L’aria imputridisce,stantia;diventa
mal’aria;L’acqua si fa desiderare per lungo tempo-oltre il settanta per cento di precipitazioni in meno nel
mese di giugno,dopo un inverno tropicale ma asciutto-;salvo poi scendere fulminea in picchiata con
violenza punitiva. Il fuoco avvampa incoraggiato dall’arsura desertificante,dall’idiozia e dal dolo di
misteriosi piromani. Ce n’è quanto basta per ricamare il profilo di una emergenza lancinante,al limite del
millanearismo. Ma la metafisica c’entra fino a un certo punto.La natura è sempre innocente. Il
riscaldamento e il raffreddamento globale,i cambiamenti climatici,il rapporto ondivago tra il Sole ed i
suoi pianeti ancillari non sono altro che eterni movimenti di contrazione e dilatazione cosmica. Ci
riguardano,ma non dipendono da noi se non nella misura in cui tendiamo a rendere le nostre dimore più
inospitali di quanto possa ciclicamente fare l’atmosfera terrestre. Avvelenare il nostro mondo-ambiente
non è una pratica lungimirante. Non esiste presunzione di intelligenza per chi cementifica alla cieca senza
mantenere in ordine l’assetto idro-geologico,per chi sfrutta le falde acquifere e i bacini di superficie senza
curarsi della siccità incombente;per chi abbandona a sé stessi boschi e terreni incolti con i loro cumuli di
sterpi infiammabili. Resta il fuoco. Ammoniva Jùnger,un fuoco divoratore affamato dallo squilibrio degli
elementi,il demone guardiano del focolare che inselvatichisce e si trasforma nel caliginoso,rovente
persecutore delle nostre cattive coscienze. L’uomo ci mette il suo. Nella furia moralizzatrice con la quale
in Italia hanno smembrato il pletorico corpo forestale,diluito tra vigili del fuoco e carabinieri,è stata
falcidiata una catena di comando e di presidio territoriale che funzionava. Una cattiva riforma della
Protezione Civile ha svuotato i suoi poteri speciali d’intervento a beneficio delle regioni,tutte concorrenti
e in ordine sparso. In questo regime di emergenza permanente,si fatica ormai a cogliere un tratto di
eccezionalità. Ci stiamo abituando all’insipienza? Ma la Natura,appunto,è innocente e può salvarsi da sé.
L’acqua tornerà a scorrere,impetuosa. Sta a noi tornare verso la sorgente di una vita ordinata o
accontentarci di pozzi fangosi. In queste ore si è avuta l’impressione di assistere alla fine del mondo in
diretta. D’improvviso,dinanzi alla natura-da noi cosi’ dominata,sfruttata,intaccata,-ci si sente come i
lillipuziani davanti a Gulliver. Ma cos’è questa cosiddetta Natura,cui spesso gli uomini si contrappongono-ora con l’arroganza del dominatore,ora con l’angosciata umiltà del colpevole guastatore- come se non facessero anch’essi parte della Natura,come se non fossero anche essi natura,al pari degli animali,delle piante o delle onde? Le catastrofi naturali inducono spesso a pensose e forse inconsciamente compiaciute geremiadi sulla punita superbia dell’uomo che pretende di dominare la natura sulla tecnica che devasta la vita. Ogni disastro è buono per criticare ogni fiducia nella tecnica e nel progresso.
L’Apocalisse-immaginata nella tradizione ora per fuoco ora per acqua adesso confusi nella distruzione
provocata dal terremoto-incute un brivido di spavento. Come accade spesso con lo spavento,a questo si
mescolano un’ambigua attrazione e un compunto monito sulla debolezza dell’uomo e la sua mancanza di
Umiltà nei confronti della Natura. Tutto ciò si intensifica dinanzi a sciagure più direttamente dovute a
responsabilità umane,a differenza dal carattere più decisamente naturale del terremoto che infuria e che
non sembra possa essersi messo in conto all’insensatezza o alla disonestà umana,come invece nel caso
degli effetti scatenati dalle deforestazioni o dall’infame edilizia che,in molti casi,non si preoccupa,per
incompetenza o avidità truffaldina,delle misure antisismiche. L’orgoglio dell’uomo che con la sua tecnica
soggioga la Natura o l’invettiva contro questo orgoglio partono da un abbaglio:dalla contrapposizione fra
l’uomo e la Natura e dalla contrapposizione,altrettanto fallace,fra naturale e artificiale. Come dice un

grande inno alla natura scritto da Goethe-o trascritto da un suo seguace-tutto è Natura,anche ciò che ai
nostri occhi sembra negarla ed è invece una sua messa in scena. C’è il mito di una Natura pura ed
incorrotta,in quanto vergine di ogni intervento umano che la corromperebbe. Ma nemmeno il più schietto
e sano vino esiste in natura senza l’agire di chi coltiva la vite e vendemmia l’uva. Anche i nidi degli uccelli
non esistono senza l’attività di questi ultimi che li costruisce. Chi,come Goethe,ha il senso profondo
dell’appartenenza della specie umana,come le altre specie,alla Natura,sa che l’impulso dell’uomo a
costruirsi una tenda o una casa non è meno naturale di quello che spinge i castori a costruire le loro dighe
che si oppongono all’impeto,altrettanto naturale,delle acque. L’uomo non sta devastando la natura,ma sta
spesso compiendo un altro peccato,più autodistruttivo:sta minacciando non la Natura,ma se stesso,la
propria specie. I funghi velenosi non sono meno naturali di quelli mangerecci;le distese gelate di Plutone
non sono meno naturali dei colli toscani in fiore. Più semplicemente,funghi velenosi e pianeti gelidi sono
letali per la nostra specie,di cui alla Natura probabilmente non importa più che degli estinti dinosauri,ma
che per noi invece conta. Tutto,comunque,appartiene alla Natura delle cose,De Rerum Natura. La
cosiddetta tecnica non va quindi demonizzata come un peccato contro natura;è la sua dismisura,il suo
abuso spesso dissennato e imbecille che vanno denunciati,non con toni di untuosa o apocalittica condanna
della miseria dell’uomo,ma con la chiarezza della ragione,che non ha da inchinarsi alla Natura-della quale
e della cui evoluzione fa parte-,bensi’ rendersi conto dei propri limiti,perseguire il progresso senza
illudersi con tracotanza che esso sia illimitato ma misurandosi con tutti i problemi e i guasti che pure esso
crea,e cercare di capire,volta per volta,quando sia necessario proseguire e quando sia necessario fermarsi
o magari fare qualche passo indietro,posto che ciò sia possibile. E’ questa avvertenza di un possibile
pericolo che ci manca. Anche vedendo le immagini di una tragedia restiamo tranquilli,stupidamente
convinti che mai qualcosa di simile ci possa accadere,qualsiasi madornale errore possiamo commettere.
Questa protettiva incoscienza del pericolo caratterizza non solo gli individui,ma anche le civiltà,le
culture,le società,certe di essere immortali. Dignità e Forza morale non hanno nulla a che vedere con la
superbia prometeica di chi pensa,con allegra incoscienza,di poter sfidare impunemente l’equilibrio
necessario alla sua specie,ritenendo che quella forma della natura che chiamiamo tecnica possa sganciarsi
dall’antica madre ossia dalla totalità che l’ha generata e la comprende,come un ramo che pretendesse di
rinnegare l’albero in cui e da cui è cresciuto e andarsene per conto proprio. Se tante reazioni anti
tecnologiche appaiono irrazionali,ancor più giulivamente e auto lesivamente irrazionale è la sicumera con
la quale,in nome di un progresso che cosi cessa di essere tale e di una supponenza scientista convinta che
la scienza sia Dio,si distruggono foreste,si sperperano energie,si esauriscono risorse senza pensare a come
la Terra potrà nutrire un numero sempre più insostenibile di affamati e a come si potrà vivere in una Terra
sempre più diversa da quella cui è abituata la nostra specie. C’è,nella specie umana,una presunzione di
eternità che la rende irresponsabilmente scialacquatrice della vita. Noi ischitani dobbiamo dimostrare
razionale e ferrea volontà nel perseguimento della crescita,senza sfide alla sorte,nella consapevolezza dei
rischi e nella fattiva preparazione ad affrontarli,dando una grande prova del coraggio,della fermezza e
della calma con cui l’uomo sa talora far fronte ad un disastro. La forza,la calma,la dignità,dimostrano che
l’uomo classico,come lo conosciamo da millenni,non è ancora superato-come proclamava
Nietzsche,sperandolo e insieme temendolo-ma è ancora degnamente al suo posto.
Antimo Puca

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