Una vita che sa di sale

I vecchi pescatori oggi stanno lì ad Ischia ponte – nello slargo di piazzale delle Alghe, nei vicoletti dietro le Chiazze – sulla spiaggia delle Mandra, al porto di Forio, chini sulle reti, a rammendarle con grossi aghi e dita gonfie dal lavoro. Stanno in silenzio, quel silenzio che si impara da soli in mare, e sembrano pesanti come saldati alla terra, tettonici “uomini gravati dalla mole dei loro corpi stanno, come in una tana, nella penombra delle barche dalle alte sponde” scriveva Vitaliano Corbi a proposito della serie dei pescatori dipinta da Gabriele Mattera negli anni ’50 ” ultimi esemplari, certo un po’ sfiancati e smarriti, di un’antica stirpe italica, discesa da Giotto fino al Nostro Novecento”. Ma loro, questi uomini di mare, non sono sempre stati così, anzi. Da giovani calcavano la superficie instabile delle onde e la leggerezza dell’acqua salata, vivevano in un mondo dimidiato tra diverse gravità, di giorno a terra, di notte a mare.
E quel mare gli manca, e come se gli manca. Quando ne parlano gli occhi si fanno ancora più velati. Hanno perso qualcosa di bello, però sono sereni. Sono sereni perché sono un po’ “filosofi” nell’accezione popolare di questo termine, nei lunghi giorni, nelle lunghe notti trascorsi in mezzo al mare si pensa tanto, anche alla morte, che poi in questo caso sta un po’ dietro l’angolo.

I grandi vecchi non escono più in mare, eppure il mare lo conservano negli occhi, sulla pelle resa cuoio dal sole, sulle mani dalle dita grosse, e del mare conservano anche quel sentimento forte, che è in perfetto equilibrio tra amore e timore, rispetto e sfida.

A Forio c’è una chiesa, e la conosciamo tutti, la Chiesa del Soccorso, un monumento di pietra a quello che da sempre rappresenta per l’isola il mestiere del mare. Appollaiata su un promontorio, bianca come calce, ben visibile da lontano in modo da confortare gli animi di quanti stavano al largo, a volte in difficoltà e agognavano la terra. Gli ex voto per grazia ricevuta di marinai e pescatori custoditi in questa minuscola chiesa, raccontano più di mille parole un lavoro difficile, aspro, a volte terribile. “ Il mare non è amico, né nemico” ci racconta un pescatore, Giovan Giuseppe, 80 anni “ il mare è il mare”. E verrebbe da sorridere per questa tautologia un po’ naif, ma il concetto che vuole esprimere invece è profondo : “ il mare fa il mare, e noi dobbiamo fare gli uomini. Se ci gonfiamo la testa con la nostra bravura e pensiamo di sfidarlo, possiamo anche passarla liscia ma possiamo anche morire e non è uno scherzo!”.
“ Avevo 8 anni quando ho cominciato a rispettare il mare. Uscivo con mio padre” dice Aniello un anziano signore dagli occhi azzurri, piccolo, piccolo come un soldo di cacio “ Ero un bambino, però all’epoca non si badava a tante cose. Quelli erano tempi duri, eravamo poveri, bisognava che tutti in famiglia lavorassimo per portare a casa il pane, la famiglia era numerosa. Non mi vergogno a dire che facevamo la fame”. Mentre racconta l’altro pescatore incalza “ pure noi facevamo la fame, tutti facevamo la fame”. “Noi non avevamo neanche soldi per comprare un pezzo di pane da portare in barca come merenda. Capite? Non sto parlando di un panino imbottito, come ora sta mangiando quello là “ e addita un ragazzo che addenta un bel pezzo di pane di Boccia con la mortadella “ noi la mortadella ce la sognavamo! Noi non avevamo neanche una crosta di pane per fare stare zitto lo stomaco. E che concerto su quella barca facevano le nostre pance… così quando non ne potevamo più e una spada sembrava che ci trafiggesse dentro per i morsi della fame mangiavamo pesci crudi. Poi non dimentichiamo che non c’era il motore, il motore delle nostre barche era questo “ e si tocca le braccia “ tutto a remi. Ce ne voleva di energia per remare chilometri e chilometri nel freddo. Però per mangiare avevamo anche un’altra possibilità, ma questa ce la potevamo permettere solo se avevamo fatto un bel pescato. Se eravamo andati sulla secca raggiungevamo la zona della Grotta di terra a Campagnano e “davamo la voce”. Gridavamo con quanto fiato avevamo in corpo “calacala”; se c’era qualche contadino scendeva giù fino a raggiungere la barca e ci portava un cesto con quello che aveva nell’orto: fichi, pomodori, vino, un po’ di frutta”.
Dopo averlo svuotato di quelle cose di campagna i pescatori completavano lo scambio mettendo nel cesto il pesce. Insomma un baratto tout court.
A furia di remi quei ragazzi raggiungevano a volte zone davvero lontane si andava al largo di Sorrento, ci si spingeva anche verso la costa laziale.
“Altro che palestra! “ ride Aniello “ avevamo certi muscoli. Poi dormivamo in barca, e sapete come facevamo? Ci stendevamo sulle assi di legno e per cuscino avevamo un remo, una cassetta…muscoli indolenziti per il freddo e per la durezza del giaciglio. Ma era bello! Ho visto il cielo pieno di stelle per tanti anni nella mia vita che mo’ ce l’ho stampato qua” e si tocca la fronte “ voi non sapete cos’è il mare senza luci, perché dovete immaginare che a quel tempo i paesi non erano per niente illuminati… mica come adesso. Dal mare la terraferma e le isole erano solo delle enormi sagome nere, il resto erano stelle…”.
E il mare, com’era il mare generoso?
“ Si, si, si. Il mare era pieno zeppo di pesci, a volte calavamo le reti e la roba dentro era tanta che nella barca non ci stava…non come oggi che il mare è morto. Il mare lo hanno ammazzato quelli che pescavano con le bombole, uno sterminio. Adesso non c’è più niente…Pensate che a quel tempo nelle nostre reti finivano pure delfini e pescecani. Noi li liberavamo, perché i delfini erano amici, ci aiutavano a pescare. Nuotavano intorno alla barca e così i pesci per sfuggirli finivano nelle nostre reti. Mi ricordo che gli avevamo dato anche dei nomi a questi delfini, perché erano sempre gli stessi e avevano dei segni particolari che ci aiutavano a distinguerli. Mi ricordo di uno in particolare capajanca, un delfino con la testa bianca, bianca. L’ho incontrato per anni e quando lo vedovo gridavo Capajanca, quello saltava, faceva certi zombi. Poi un giorno non l’ho più visto. E’ stato triste”.
Ma il mare non ha solo creature mansuete ci sono pure i pesci cattivi: “ I pescicani erano terribili! “ ricorda Aniello “ se un pesce nella rete perdeva sangue, arrivava o’ pescecan come un pazzo! Noi vedevamo dalla barca un sacco di schiuma era “o pescecan” che strappava le reti a morsi per mangiare i pesci. Quando succedeva questa cosa qua, era terribile, rovinava le reti e tutto il pescato finiva in mare. Allora ci facemmo furbi e imbrogliammo il pescecane, lontano dalla barca mettemmo un bel pezzo di pesce, così il pescecane se la prendeva con lui, e noi potevamo pescare in pace. Poi una volta è finito dentro la barca e io per un momento non ho perso il piede.
Perdere il piede non è piacevole, però perdere il mare perché sei vecchio è pure più brutto!”

 

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