AICOM NEWS A CURA DEL VICEPRESIDENTE MARCO LARASPATA

Contratti di lavoro a tempo determinato: le nuova disciplina

Lavoro a tempo determinato: quali sono le principali novità introdotte dal Decreto Dignità.

Il 14 luglio 2018 è entrato in vigore il cosiddetto “Decreto Dignità” [1] (la cui legge di conversione è entrata in vigore il 12 agosto [2]), che ha modificato la precedente disciplina dei contratti di lavoro a tempo determinato [3]. Chi da casa ha ascoltato i telegiornali in questi mesi ha sentito molto parlare di questo decreto dal nome capace di accendere una speranza, quantomeno di trovare lavoro con più facilità, ma anche di stabilità per chi è precario e magari ha già 40 o 50 anni e una famiglia sulle spalle. Obiettivo che si è posto il legislatore della riforma, infatti, è quello di scoraggiare l’utilizzo dei contratti a tempo determinato e quindi di limitare il precariato. Da qui il nome dato alla riforma che per il Ministro del Lavoro deve servire a restituire la dignità perduta ai lavoratori che non hanno un contratto di lavoro a tempo indeterminato e sono costretti a rincorrere ed accettare lavori a termine, senza grandi speranze di futura stabilità. In effetti, è da tempo che il legislatore cerca di trovare un giusto equilibrio tra la necessità incentivare la contrattazione a tempo indeterminato e il bisogno di limitare il più possibile il precariato, senza però eliminare del tutto la possibilità di una contrattazione flessibile comunque utile sia al lavoratore che al datore di lavoro. Immaginare oggi, dopo la riforma Biagi del 2003, un mercato del lavoro che non possa giovare di contratti a termine è quasi impensabile, ma sicuramente occorre un limite all’abuso di questa tipologia contrattuale affinché la flessibilità non diventi precariato, con tutte le conseguenze negative che questo comporta. Le ripercussioni della precarietà sull’economia sono assolutamente nefaste: un lavoratore con un contratto a termine, senza alcuna garanzia di poter proseguire il rapporto alla scadenza del contratto, ha una possibilità di spesa limitata alle esigenze di vita quotidiana perché il suo futuro lavorativo è assolutamente incerto. Ciò vuol dire che difficilmente potrà ottenere un mutuo per comprare casa o fare un finanziamento per comprare la macchina, probabilmente avrà anche difficoltà a scegliere di metter su famiglia. Insomma, è certo che l’intervento dello Stato è fondamentale per regolamentare la contrattazione a termine e incentivare quella a tempo determinato, ma la mano pubblica deve intervenire con piena cognizione di causa nel mercato privato, affinché le riforme non si rivelino un boomerang. Ciò detto, proviamo a vedere quali sono le principali novità introdotte con il Decreto Dignità in materia di contratti di lavoro a tempo determinato: la nuova disciplina servirà a raggiungere lo scopo del legislatore?

Indice

Quanto può durare massimo un contratto a tempo determinato dopo la riforma?

La prima e più importante novità introdotta con il Decreto Dignità è la riduzione della durata massima del contratto a tempo determinato: al contratto può essere apposto un termine non superiore a 12 mesi [4], a differenza dei 36 mesi previsti prima della riforma.

Al contratto può essere apposto un termine superiore a 12 mesi, per una durata massima di 24 mesi, soltanto se sussistano determinati requisiti che ne giustifichino la maggiore durata.

Si tratta in particolare di tre condizioni. La prima concerne esigenze del datore di lavoro di sostituire un lavoratore assente, la seconda consiste nella necessità di far fronte ad esigenze oggettive e temporanee al di fuori della ordinaria attività; la terza condizione, infine, deve riguardare un eventuale incremento temporaneo improvviso della normale attività del datore.

Le condizioni devono coesistere? Non necessariamente, la norma prevede che ne basta almeno una.

Quindi, solo in questi casi è giustificabile l’apposizione di un termine superiore a 12 mesi, ma non superiore a 24 mesi, al contratto di lavoro a tempo determinato.

Ora, la disposizione normativa introdotta con la riforma impone al datore di spiegare la causale che giustifica l’apposizione al contratto di un termine più lungo dei 12 mesi stabiliti dalla legge, ma la sua interpretazione potrebbe non essere immediata: cos’è una esigenza temporanea e oggettiva estranea all’attività ordinaria? E l’incremento temporaneo, significativo e non programmabile dell’attività ordinaria? È difficile dirlo, sicuramente bisognerà valutarlo caso per caso, ma le difficoltà di circoscrivere l’interpretazione della norma, per evitare di apporre una causale illegittima, potrebbero comportare un notevole incremento del contenzioso dinanzi il giudice del lavoro chiamato ad interpretare la corretta apposizione del termine a quel particolare contratto, valutando se nella fattispecie concreta portata alla sua attenzione la causale, formalmente posta a giustificazione della maggiore durata del rapporto di lavoro, integri o meno le condizioni previste dalla legge.

Ad ogni modo e fino a che non interverranno chiarimenti, molto probabilmente la disposizione in esame sarà interpretata in maniera ampia ed estensiva, facendovi rientrare fattispecie che magari vanno anche oltre quella che era la precisa intenzione del legislatore. D’altronde, se il legislatore ha reintrodotto la causale, lo scopo era quello di limitare l’uso del contratto a termine per un periodo superiore a 12 mesi solo ed esclusivamente in caso di oggettiva necessità, diversamente avrebbe lasciato le cose come stavano senza porre limiti al datore e consentendogli di stipulare contratti di 24 mesi senza dover dare alcuna spiegazione.

Quindi, che si tratti di un solo contratto o di una successione di contratti, non è possibile superare il limite massimo di 24 mesi.

Nel computo dei 24 mesi sono inclusi anche i periodi in cui il lavoratore ha prestato la propria attività presso quel determinato datore di lavoro con un contratto di somministrazione [5].

Cosa succede se il termine superiore a 12 non è giustificato?

Il problema della corretta interpretazione della nuova disposizione normativa è proprio questo: se la causale manca o è illegittima, nel senso che le esigenze previste dalla norma non sussistono, il contratto si converte in contratto di lavoro a tempo indeterminato dalla data di superamento dei 12 mesi.

Perché è un problema? Se dal punto di vista del lavoratore l’errore del datore rappresenta una opportunità per instaurare un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, per il datore questa norma rappresenta un deterrente all’apposizione di un termine più lungo di 12 mesi. Sì, perché laddove il datore ponesse a fondamento del termine più lungo una causale successivamente ritenuta illegittima, sarebbe costretto a subire l’instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato che se lo avesse voluto lo avrebbe instaurato sin dall’inizio.

Se la disposizione fosse più precisa o se attraverso adeguati chiarimenti si riuscisse a circoscrivere l’interpretazione della norma, il rischio sarebbe limitato e i datori di lavoro, qualora ne avessero bisogno, potrebbero usufruire di un rapporto più lungo con il lavoratore, pur non superando i 24 mesi.

Stando così le cose, invece, anziché limitare il precariato si potrebbe rischiare un’accelerazione del ricambio di personale all’interno delle aziende ogni 12 mesi e senza particolari misure volte a incentivare l’assunzione a tempo indeterminato dopo il rapporto di lavoro a termine. Il che rappresenta un problema in primis per il lavoratore, il quale potrebbe vedersi costretto a cercare un nuovo lavoro ogni anno, anche perché in soli 12 mesi non avrebbe neanche il tempo necessario per farsi conoscere e apprezzare nell’azienda in cui lavora.

Il contratto a termine si trasforma in contratto di lavoro a tempo indeterminato anche nel caso in cui venisse superato il limite dei 24 mesi. In questo caso è facile determinare quando si verifica la condizione che converte il contratto in un contratto a tempo indeterminato, perché si tratta solo di una condizione temporale. Ovviamente, si tenga presente che nel calcolo dei 24 mesi sono inclusi anche i periodi di missione, cioè quei periodi in cui il lavoratore presta la propria attività attraverso una somministrazione di lavoro. Ciò che conta ai fini del computo dei 24 mesi complessivi, infatti, è aver svolto le stesse mansioni presso lo stesso datore di lavoro.

Supponiamo che tu abbia stipulato un contratto di 12 mesi per lavorare in un supermercato. Allo scadere del contratto, ti assume un’agenzia di somministrazione e inizi di nuovo a lavorare in quello stesso supermercato dove lavoravi prima, per altri 12 mesi.

Magari all’inizio il proprietario del supermercato non ha potuto farti un contratto superiore a 12 mesi perché non c’erano le condizioni previste dalla legge per giustificarlo ma, successivamente, dato che un tuo collega è in malattia, ha di bisogno di te. Così attraverso l’agenzia di somministrazione torni a lavorare lì. Al termine del secondo contratto di 12 mesi, il proprietario del supermercato, dato che il tuo collega tornerà tra due mesi, decide di stipulare con te un altro contratto a termine, esattamente di due mesi. Ebbene, in questo caso è facilmente rilevabile il superamento del termine massimo previsto dalla legge e dunque il tuo contratto diventa un contratto a tempo indeterminato.

La legge, però, consente un’ eccezione: la possibilità di lavorare a tempo determinato presso lo stesso datore oltre i 24 mesi, stipulando un contratto di massimo 12 mesi davanti alla direzione territoriale del lavoro competente per territorio, come già previsto dalla normativa previgente. Dunque, nell’esempio che abbiamo fatto prima, se icon il tuo datore vi foste recati davanti alla direzione territoriale per stipulare il contratto di due mese, non ci sarebbe stata la conversione del contratto in contratto a tempo determinato.

In pratica, quindi, puoi lavorare a tempo determinato presso lo stesso datore per 36, di cui 12 senza causale, 12 con la specificazione della causale da parte del tuo datore e 12 con contratto da stipulare presso la direzione territoriale del lavoro. Superato tale periodo, fra proroghe, rinnovi, somministrazione e quant’altro, non puoi più lavorare a tempo determinato presso il medesimo datore di lavoro e se tutto è avvenuto nel rispetto della legge non ci sarà alcuna conversione del tuo contratto in in un contratto a tempo determinato.

Ti stai chiedendo se, esaurito il tempo massimo di contrattazione a termine, hai qualche garanzia di poter restare a lavorare presso quel datore a tempo indeterminato o in qualsiasi altro modo? Purtoppo no, la nuova disciplina non è intervenuta su questo aspetto. Resta invariata la normativa previgente riguardo al diritto di precedenza che potrai esercitare a determinate condizioni.

Cos’è il diritto di precedenza?

Sebbene la riforma non abbia inciso sulla previsione del diritto di precedenza, giova comunque ricordare in questa sede che se hai lavorato presso lo stesso datore per un periodo superiore a sei mesi complessivamente, puoi esercitare il tuo diritto di precedenza nelle eventuali assunzioni a tempo indeterminato che quel datore farà entro i 12 mesi successivi alla scadenza del tuo contratto a tempo determinato.

È molto importante saperlo perché non è un diritto che si acquisisce automaticamente, ma deve essere specificamente richiamato nel tuo contratto di lavoro (quindi verifica sempre che ci sia) e hai l’onere di farne richiesta scritta entro sei mesi dalla fine del rapporto di lavoro. Quindi, se il tuo contratto è scaduto e il diritto di precedenza era stato inserito nel tuo contratto, sappi che puoi inviare al tuo datore una lettera contenente la richiesta di usufruire del diritto di precedenza, così se il datore entro un anno volesse assumere qualcuno a tempo indeterminato, dovrebbe rivolgersi a te prima di cercare altrove.

Quante volte può essere prorogato o rinnovato il contratto a tempo determinato?

Dal 1° novembre 2018, proroghe e rinnovi dei contratti a tempo determinato dovranno rispettare le nuove regole introdotte con la riforma.

Dopo la riforma, infatti, il contratto a tempo determinato potrà essere prorogato massimo 4 volte (prima 5), quando la durata iniziale sia inferiore a 24 mesi. Mentre, però, nei primi 12 mesi la proroga del contratto non deve essere giustificata, è quindi libera e non necessita di causale, successivamente, superati i primi 12 mesi, c’è bisogno della causale prevista dalla riforma, cioè di specificare quali esigenze impongono al datore di prorogare il contratto (assenza di lavoratori, aumento improvviso e imprevedibile dell’attività ordinaria dell’azienda o esigenza oggettiva e temporanea al di fuori dell’attività ordinaria aziendale).

In caso di superamento del numero di proroghe, il contratto diviene a tempo indeterminato dalla quinta proroga.

Il contratto può essere rinnovato, invece, solo quando sussistano le esigenze previste dalla legge per il superamento del termine di 24 mesi, pena la conversione in contratto a tempo indeterminato.

La legge prevede qualche eccezione come i lavoratori stagionali o le start-up innovative i cui contratti possono essere rinnovati o prorogati a prescindere dalla sussistenza di esigenze particolari, quindi senza alcuna giustificazione [6].

La legge prescrive [7] altresì che tra la scadenza di un contratto e la riassunzione del lavoratore devono intercorrere almeno 10 giorni se il contratto è inferiore a 6 mesi oppure 20 giorni se il contratto è superiore a 6 mesi. Diversamente, qualora passassero rispettivamente meno di 10 o 20 giorni, ci sarebbe la conversione del contratto in contratto a tempo indeterminato.

Come viene scoraggiato l’uso di contratti a tempo determinato?

La riforma ha previsto un incremento del contributo addizionale che il datore di lavoro dovrà pagare in caso di rinnovazione del contratto a tempo determinato, che passa dall’1,4 % all’1,9%. Questo vale solo per i rinnovi e non per le proroghe.

Incentivi alla contrattazione a tempo indeterminato

Il Decreto Dignità ha previsto un incentivo all’assunzione a tempo determinato dei lavoratori under 35, incentivo che consiste in una riduzione dei contributi che il datore dovrà pagare ai lavoratori, per un massimo di 3 anni, pari al 50% e per non più di 3.000 euro all’anno. L’incentivo vale soltanto per i lavoratori di età inferiore a 35 anni che non abbiano mai avuto un contratto a tempo indeterminato.

note

[1] D. L. 87/2018.

[2] L. 96/2018.

[3] D. Lgs. 81/2015.

[4] Art. 19 D. Lgs. 81/2015.

[5] Art. 30 D. Lgs. 81/2015.

[6] Art. 21 co. 01 e 1 D. Lgs. 81/2015.

[7] Art. 21 co. 2 D. Lgs. 81/2015.

 

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