LA COLOMBAIA DI LUCHINO VISCONTI: QUI NACQUERO I FILM E LE LEGENDE DEGLI ANNI 50′

Quando Luchino Visconti la vide, erano gli anni ’50 e allora Ischia era come Capri, senza la piazzetta, e in qualche modo più bella, se ne innamorò solo come un Des Esseintes – o un aristocratico con la tessera del Pci può innamorarsi di una villa nobile e spartana, a strapiombo sul mare e lontano da tutto. Un’isola felice dentro un’isola meravigliosa. Una casa-castello bianca con le persiane azzurre, volte gotiche e torrioni merlati che vogliono riprodurre manieri medievali, dépendances e un parco di lecci, eucalipti e pini.

Zèfiro dal mare e aria di cinema. La villa, chiamata La Colombaia, è nella più bella posizione di Ischia, tra Forio e la baia di San Montano, sopra la caletta di San Francesco, nel cuore del bosco di Zaro. Costruita a fine ‘800 dalla locale famiglia Patalano, era stata poi acquistata dall’eccentrico barone Fassini. Per Visconti – conte, intellettuale, neorealista, esteta, affettivamente omosessuale, imperioso e generosissimo – quella casa divenne un’Ossessione. Il regista – cresciuto in una delle ville più belle del lago di Como, villa Erba a Cernobbio – nei primi anni delle sue vacanze a Ischia, già intorno al 1945, soggiorna all’inizio in una casa sulla costa di Punta Molino, dopo in albergo. Poi, vista La Colombaia, dove l’amica Alida Valli passa ospite l’estate, fa di tutto per averla. Visconti mette in campo l’orgoglio di casta, la sete di dominio, il desiderio del Bello. Ed essendo un conte, ricco e famoso, ci riesce. Nel 1965, quando ha già girato Senso, Rocco e i suoi fratelli e Il Gattopardo, convince per sfinimento il barone a vendergliela. La Colombaia ora è sua.

«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». E Luchino cambia tutto. La villa viene ristrutturata sotto la supervisione dell’architetto Giorgio Pes. Visconti con lavori interminabili («Una casa non va mai finita», diceva) rivoluziona soprattutto gli interni, in stile liberty. Spende cifre astronomiche per acquistare i pavimenti (provenienti da antiche ville campane in demolizione) e mobilita i suoi amici antiquari tra Londra e Parigi per recuperare i pezzi migliori: vetri coloratissimi, quattro grandi molossi di ceramica, Klimt e Matisse alle pareti, vasi d’alabastro, enormi camini umbertini, carte da parati fiorate, finestre a sesto acuto che inquadrano una vista a strapiombo sul mare. Lui si occupa personalmente del giardino: siepi, ortensie blu (di cui riempiva tutte le 25 stanze della villa), edere, le «belle di notte» bianche che profumano da fare girare la testa…

Il «bianco maniero sovrastante l’azzurro mare profondo» diventa tutto per Visconti. Oasi, buen retiro, luogo di lavoro (sullo scrittoio della sua stanza furono trovati appunti di diversi progetti teatrali, e qui lavorò molto alla sceneggiatura di Ludwig), alcova per i suoi furori passionali (le lunghe vacanze, ogni anno, per anni, con l’amatissimo attore austriaco Helmut Berger, che all’epoca era «l’uomo più bello del mondo»). E la sua tomba: sotto una roccia del parco, tra la discesa a mare e la piccola terrazza che aveva eletto a «pensatoio», dal 2003 la famiglia Visconti, o quel che ne resta, ha posto le sue ceneri.

Oggi quel che resta della Colombaia è il mito di un’epoca, quella in cui il cavalier Angelo Rizzoli trasformò Ischia in un ritrovo del jet-set internazionale; e la leggenda di una villa elegantissima che ospitò (oltre all’irresistibile e vezzeggiato Helmut Berger, il protagonista assoluto e dissoluto delle estati alla Colombaia) tutti gli amici di Visconti: Suso Cecchi d’Amico (con la quale scrisse la sceneggiatura di dodici dei suoi diciassette film), Maria Callas, Burt Lancaster, Romolo Valli, Giuseppe Patroni Griffi, Alain Delon (il grande amore mancato, bastava un ritardo all’invito a cena da «Zi Nannina a mare» per gettare il regista in paranoia), Franco Zeffirelli, Romy Schneider (forse l’attrice che amò di più), Florinda Bolkan, Adriana Asti (la quale, secondo Berger, portava alla Colombaia altri omosessuali per scacciare lui, l’ultimo era un polacco…), e poi Renato Salvatori, Annie Girardot, Umberto Orsini (che una sera rompe un vaso di Émile Gallé, e Luchino non batte ciglio: «Vabbè, ma mica ti sei fatto male?»)… Per il resto – al netto dei ricordi cinematografici che ancora contiene – La Colombaia oggi è spoglia di tutto. Rimanendo bellissima. Dopo la morte di Visconti, nel ’76, la villa ha conosciuto solo guerre tra gli eredi, abbandoni, vandalismi, fallimenti, contenziosi tra la Fondazione che l’ha gestita per alcuni anni facendone sede di museo e Scuola di cinema (bruciando un milione e mezzo di euro) e l’amministrazione di Forio che attualmente è il proprietario, ma non sa come mantenere un immobile costosissimo e al massimo ogni tanto ospita un convegno di medici o un matrimonio (gratis agli ischitani, 500 euro di affitto per gli «stranieri», quando una location del genere, in un mondo normale, renderebbe 10mila euro a cerimonia…).

Oggi La Colombaia – dove negli anni ’80-90, nel momento di massimo decadimento, «ci facevano orgette e messe nere», racconta qualche vecchio del posto – è chiusa da tre anni. Riusciamo a entrare perché giornalisti, dopo un paio di telefonate in Comune. Sole a picco, silenzio assoluto lungo la strada che sale dal mare costeggiata da muretti dipinti a calce di ville che immaginiamo ricchissime (passando incrociamo un’Audi gialla con Sabrina Ferilli) e un bosco di lecci che immette alla casa. C’è una coppia di custodi di mezza età («In realtà abusivi, c’è un contenzioso con l’amministrazione…» spiega il dipendente del Comune che ci accompagna) ai quali qualcuno ogni tanto allunga una mancia per entrare di sfroso, mentre qualcun altro invece non si perde d’animo e scavalca.

Il parco è abbandonato, la ruggine si mangia gli infissi, le statue del giardino rubate, il roseto scomparso, il pavimento di legno dell’anfiteatro dove si mettevano in scena i lavori teatrali semidistrutto… Fuori è tutto malandato, dentro tutto vuoto. Gli arredi si dice siano in qualche deposito a Milano, messi al sicuro dagli eredi. Il resto è stato depredato. I pavimenti in maiolica disegnati dallo stesso Visconti smantellati, i camini in marmo staccati, le porte a cuspide con le lunette di vetro colorato divelte. E il bancone del bar, posticcio, è decorato utilizzando ciò che rimane dei magnifici vetri di Murano con cui il regista fece rivestire l’ascensore esterno, ora completamente arrugginito, fatto costruire quando una trombosi gli paralizzò braccio e gamba sinistra. Era l’estate del ’72.

Dopo, il conte Visconti venne sempre meno qui nel suo regno. Lasciando dietro di sé i suoi capricci, il suo genio, il suo gusto unico, le sue sfrenatezze e tutta la sua solitudine.

da il giornale.it

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